57 giorni di viaggio, 49 effettivi di corsa e cammino tra passi, cime e tutto ciò che di appuntito il Creatore ha disegnato a circoscrivere il Nord Italia. 1020chilometri effettivamente percorsi seguendo il profilo delle Alpi, 43.827 metri di dislivello positivo e 43184 metri di dislivello negativo. Uno zaino di 8 chili in spalla e nessun Gps o cartina a fare da guida, solo l’appoggio (da casa) di un padre con la stessa passione e il sale in zucca indispensabile quando la quota sale e la natura prende il sopravvento sull’uomo.
I numeri sono il tocco che dà rilievo oggettivo a un’impresa: strascicarli o fermarsi a essi, però, ti fa perdere tanto per strada. Anzi, per il sentiero. Il terreno esistenziale preferito di Filippo Menotti, varesino classe 1977, ex pubblicitario che ha deciso di inseguire la libertà degli stambecchi misurandosi sulle loro stesse pendenze. Di lui si sa già molto: merito dell’originalità della sua idea diventata realtà, ripresa da quotidiani locali e non prima della partenza e durante lo svolgimento; e merito dei social network che sono stati il cicerone multimediale dei suoi passi, delle sue tappe, dei suoi incontri. A distanza di due mesi cosa è rimasto del suo “Run for a dream”, di questo viaggio tra Trieste e il Principato di Monaco, fermatosi tra lacrime amare e fiacche dolenti in provincia di Verbania? Cos’è rimasto delle montagne del Friuli, del Cadore selvaggio, della solitudine dell’Engadina, della maestosità della Val di Fassa, dei rifugi da chiamare casa anche se solo per una notte, di persone che ti amano come un amico anche se non ti hanno mai visto? Glielo chiediamo in un caldo pomeriggio di autunno, postergato all’ennesima mattinata di allenamento di una vita declinata ormai all’avventura: ne nasce un racconto di parole che diventano fotografie e di luoghi che inevitabilmente si confondono con le anime.

In cima al Forte d’Orino, alle spalle uno dei panorama più belli del mondo
Difficile, impossibile fare una classifica: «La prima immagine che mi viene in mente è a Montefosca, paesino del Friuli con vista sul Cividale. Un posto sperduto: una chiesa, un bar, una latteria e stop. Dormii in una canonica deserta e dovetti farmi un ulteriore chilometro a piedi per trovare qualcosa da mangiare. Tutto il Friuli, però, mi è rimasto nel cuore: è una terra unica, come unica è la gente che vi abita. Ogni persona che incontri ti lascia un pezzo di sé». Avanti: «Ero a Selma, in Svizzera, ospite di una famiglia di Berna nella loro stalla: mi rifocillarono con il latte appena munto e con il cibo cotto sul fuoco. Questa tappa mi è rimasta dentro per una ragione: venni sorpreso da un temporale scollinando una bocchetta e la signora, che mi aspettava allertata da mio padre, seguì la mia discesa verso la baita con il binocolo, impensierita perché vedeva gli stambecchi scappare e il sottoscritto in mezzo ai fulmini. Si preoccupava per me, eppure non mi aveva mai visto in vita sua». La ragione è una sola: «Il popolo della montagna è unico e meraviglioso. Nei rifugi la gente mi offriva sempre qualcosa, fosse un caffè o una fetta di torta o addirittura un’intera cena: ho ricevuto, dappertutto, un’ospitalità quasi fuori da ogni logica». Non mancano altri esempi: «Ho fatto lo Stelvio a piedi in quattro ore. Durante la salita un ragazzo italiano mi scortò in mountain bike senza che io gli avessi chiesto nulla: quando arrivai in cima piansi e, a ripensarci, mi commuovo anche ora». Le dense pagine del libro di Filippo riattraversano anche i momenti difficili: «Il frangente più duro, ma anche il più significativo, è stato ancora una volta in Svizzera, a Pianca Geneura, un altro posto meraviglioso. Ero stanco morto, stavo attraversando una pietraia tecnica e scivolosa e mi aspettavano 2000 metri di discesa per raggiungere Biasca: ho sofferto, ma ho conosciuto il vero me stesso». E la solitudine? «Non è mai stata un problema, un po’ perché ero sempre in contatto con i miei familiari e con la mia ragazza attraverso il telefono, un po’ perché in montagna la solitudine, anche quando passi cinque ore su un sentiero senza incontrare anima viva, non è solitudine: è semplicemente diventare tutt’uno con la natura».

Un passaggio, durante il Gta, sulle Dolomiti Friulane dal Rifugio Pacherini al Rifugio Pordenone
57 giorni di sveglia alle 6, di tappe pianificate a distanza con il padre che nel 1987 aveva tentato un’impresa simile. 57 giorni con almeno 6 ore di cammino e 30 chilometri nelle gambe, di fiacche grandi come un’oliva ascolana, bucate al mattino e ritrovate alla sera, di cene, chiacchiere e libri al focolare dei rifugi. Alla Gomba, Domodossola, 17 agosto, la decisione di fermarsi: «Avevo accumulato troppo ritardo sulla tabella di marcia». Chi pensa che il sentiero di Filippo Menotti si fermi qui, sbaglia di grosso: «Ho già in mente altre due imprese per il 2016, ma non posso anticipare nulla». Con il sostegno di sponsor (Piccola England, Bertoni Eyewear, EBS, Noene Italia, Yoga Hridaya e Studio Massofisioterapico Vigor) che credono in lui per il solo fatto che ha un sogno. Grande come una montagna.