Un bacio non si sente, non si vede, non si capisce. Un bacio si dà.
«Fabio, devi andare al Molina. Subito: Lario Mambretti ti aspetta fra un quarto d’ora. Farai un pezzo su San Valentino». Pausa, non troppo lunga peraltro: ci ho sempre tenuto a non mostrarmi impreparato agli occhi del Direttore, anche quando lo sono stato veramente e clamorosamente. Per cui, nel tempo di valore europeo di tre secondi netti, snocciolo silenziosamente nella mia mente le seguenti questioni: perchè? Perchè al Molina? Chi è Lario Mambretti? Cosa diavolo centra un anziano – suppongo sia un anziano, sta al Molina… – con la festa di San Valentino? «Sì, Andrea. Vado subito» è ciò che produce la ripresa della favella, cui segue un più soffocato: «Perché?».
Perché niente. Le intuizioni del Confa sono sempre state bagliori improvvisi, stelle comete capaci di indicarti la via nel momento stesso della loro manifestazione. Dentro hanno tutto: l’unico tuo compito è prenderle, sposarle per quello che sono, e lasciarti trasportare.
E allora eccoci davanti a quell’edificio rosa affacciato su viale Borri, alle cinque postmeridiane di venerdì 13 febbraio 2015, cielo grigio e freddo pungente in un inverno troppo tiepido. Mi annuncio alla reception, salgo due piani di scale ed entro in un salone dove un gruppo di ospiti sta guardando la televisione. Cerco Lario – «sta con sua moglie da 50 anni», mi ronzano in testa
le brevi spiegazioni di Andrea – ma non è tra loro. Percorro allora un corridoio, mi indicano una camera, ne prendo l’ingresso, lo vedo: «Buongiorno signor Mambretti, sono Fabio Gandini de La Provincia di Varese, sono venuto per…». Non so se sia prima lui a rispondermi o il suo inseparabile girello: «Parliamo del Varese Calcio?» mi chiede senza nemmeno squadrarmi come normalmente si usa con uno sconosciuto.
Iniziamo male: e ora come faccio a spiegargli che sono venuto per San Valentino, per capire come si fa a stare un’intera esistenza con la stessa donna, per raccontare la sua vita nel giorno consacrato all’amore?
Balbetto qualcosa e lui capisce, interrompendomi quasi immediatamente: «Andiamo da Marisa». Scopro che la sua dolce metà è un’altra paziente dell’istituto: Lario mi accompagna da lei e la troviamo seduta su una sedia a rotelle, intorno a un tavolo. Marisa è immobile, non vede, non sente, non parla, eppure suo marito le si avvicina: «Mari, ci sono qui i giornalisti, per San Valentino…». Nessuna risposta, nessun cenno. Lario le solleva delicatamente la testa e le scosta i capelli, candidi come la neve, dalla fronte: «Dammi un bacio». A queste parole, quasi come se fosse colpita da una scossa improvvisa in grado di frantumare in mille pezzi il suo eterno torpore, Marisa mette a rifugio le sue mani in quelle di Lario, allunga il collo verso l’uomo della sua vita e appoggia le labbra alle sue.
Stavolta i secondi che ci vogliono a capire sono molti meno di tre: ecco l’amore, quello che non ha bisogno nemmeno dei sensi per rinverdirsi, quello da raccontare nel pezzo più bello della tua vita, ed ecco i suoi due maestri. Trovati – non per caso – in un freddo pomeriggio di febbraio al Molina, a San Valentino.