Sprofondo biancorosso. Guardarsi indietro è inutile, guardare avanti fa paura, guardarsi addosso mette tristezza. Questo è il Varese, oggi: una squadra ultima in classifica, una retrocessione sempre più vicina, una società che nessuno sente più come sua, un popolo talmente affranto che fa pure fatica ad arrabbiarsi. L’esercizio è arduo, in quella caccia al primo appiglio buono: una faccia che dica “andrà tutto bene”. Che in qualche modo la sfangheremo anche stavolta.
Noi di solito quando ci troviamo in situazioni come queste (ma ci siamo mai trovati in una situazione del genere?) bussiamo alle porte che sappiamo ci verranno aperte. E allora non possiamo fare altro che chiamare loro due. Onorevole Marantelli, cosa facciamo? «Mai mulà, tégn dür. Inflaziono un detto lumbard per dire l’unica cosa che si può dire in questo caso. Perché davvero non lo so come fare, cosa fare: è dura». E l’onorevole del Pd non parla solo della partita (anzi, della disfatta) di Cittadella: «Ma no, quello è stato un disastro. E mi chiedo come possa un allenatore arrivato da un giorno e mezzo stravolgere una squadra imponendo un modulo nuovo. L’insostenibile leggerezza del 3-5-2. Insomma: sai che davanti fai fatica e non segni mai, l’unica cosa che devi fare è metterti dietro stringendo le maglie e non prendere gol. Tre settimane fa, mica tre mesi, abbiamo giocato con il Carpi capolista che ha vinto 1 a 0 e avremmo anche potuto pareggiare. Quella è la strada, su quello bisognava insistere. Come diceva il mio nonno: bisogna fare il fuoco con la legna che si ha».
E adesso? «E adesso è difficile. La mattina alle otto e un quarto abbiamo una riunione alla Camera: i primi ad arrivare siamo sempre io e Giancarlo Giorgetti, poi arrivano gli altri alla spicciolata. Ci siamo visti, guardati negli occhi: e adesso cosa facciamo». Eh sì: il momento è complicato. «Non saprei dire se sono più impotente o amareggiato. Martedì sera mi ha chiamato il Ministro della Giustizia per invitarmi a cena. Ho declinato: “Vado in albergo a vedere la mia squadra, poi tu sei a Ballarò e finisci tardi”. Alle nove e mezza mi ha richiamato dicendomi che si era liberato da Ballarò, invitandomi a raggiungerlo. Stavamo
già perdendo 3-0, ho spento la televisione e sono uscito. Non l’avevo mai fatto, col Varese in campo». Ed è stato proprio Marantelli a citare il suo collega Giorgetti: divisi dal credo politico ma uniti dalla fede biancorossa. E allora a noi non restava che chiamare anche lui: ma l’avremmo fatto comunque. «Sconsolatamente triste: ecco come sto. Con Neto e Zecchin fuori, quindi senza gente coi piedi buoni, bisogna puntare sulla presenza atletica: ma la gamba non c’era. E così non si va da nessuna parte, del resto lo diceva Sannino: siamo più scarsi degli altri, quindi dobbiamo correre più di loro.E il Beppe aveva ragione da vendere».
Siamo retrocessi? «No, quella parola nemmeno riesco a pronunciarla. La situazione è devastante, ma magari sabato con il Bologna che non abbiamo nulla da perdere vinciamo. Chissà». Il problema però sembra essere il resto: fuori dal campo, dietro le scrivanie. «Io dico che la prima condizione dev’essere la chiarezza. È difficile oggi immaginare che possano arrivare degli imprenditori pronti a mettere dei soldi nel Varese e non mi aspetto chissaché. Però al momento preferisco guardare sul campo, perché non siamo morti. Scrivetelo bello in grande: non siamo morti. E credo che per tutti noi varesini sia un dovere morale credere nella salvezza. Insomma: se non ci crediamo noi come possiamo pretendere che ci credano gli altri?».