«Varese, la coppa è distruttiva. Ma Moretti non lo sapeva?»

Del momento della Openjobmetis parla il Vate del basket italiano, Valerio Bianchini

Valerio Bianchini si schermisce: «Parlare di Varese? La seguo davvero poco». Sebbene sia probabilmente così, la chiamata verso il suo cellulare nel sabato pre-natalizio (e pre-agonistico) parte comunque e senza dubbio alcuno. Nella sicurezza che al “Vate” del basket italiano basti un’infarinatura di presente per spiegarlo come pochi sono in grado di fare. Chiamatela, se volete, verità dell’esperienza.


Sì c’è ed è una cosa che dico da tempo, perché non riguarda solo Varese: partecipare alle coppe europee “medio-piccole” è distruttivo. Il livello del basket italiano è troppo basso per l’Europa, bisogna essere realisti, e le nostre squadre non sono attrezzate per un doppio cammino. Una Champions ti impegna quasi come un’Eurolega, ti fa viaggiare a destra e a manca, ti impedisce di allenarti e ti porta a fare brutte figure in campionato. Sono cose che paghi al cospetto del pubblico, soprattutto al cospetto di un pubblico difficile e pretenzioso – che io conosco bene – come quello di Varese.


Ma lui ha accettato di partecipare alla Champions, o no?


Sì, cambiare l’allenatore provoca una specie di misterioso risveglio dei giocatori per due o tre partite, poi tutto ritorna come prima, se non peggio. È capitato anche a me: nel 1998 ho vinto il primo trofeo della storia della Fortitudo Bologna, la Coppa Italia, poi il mio proprietario di allora Giorgio Seragnoli decise di sostituirmi, proprio quando eravamo pronti a vincere lo scudetto. Lo conquistò la Virtus, infatti…

Quando le cose vanno male, la crisi esplode nel dare la colpa agli altri piuttosto che a se stessi.E invece bisogna resistere tutti insieme e tutti insieme uscirne. I giocatori e l’allenatore, poi, hanno bisogno di avere vicino il “padrone”: una volta c’erano i general manager come figura di collegamento, ma oggi non esistono quasi più.

Ed è stato un passo importante. Toto Bulgeroni, in particolare, ne ha viste di tutti i colori nella sua carriera, sa dare equilibrio e aiuta a prendere le decisioni giuste: è una garanzia.

Era un ragazzo molto intelligente e aveva un ottimo tiro. Non mi aspettavo diventasse allenatore, ma la cosa non mi sorprende: ha avuto degli ottimi maestri nella sua carriera.

È una macchina che funzionava molto bene ma che ora sta soffrendo la perdita di alcuni elementi. Poco male: dietro ha una società che persegue l’obiettivo di portare avanti un gruppo di giocatori italiani, aspetto fondamentale – che tanti dirigenti di oggi ignorano – per regalare un’anima ad una squadra. L’identificazione con i tifosi e con un territorio non la danno i giocatori con la valigia in mano e Trento, così come Reggio Emilia, lo ha capito.

Mi piace Pietro Aradori, ma il biglietto non lo pagherei per lui. Un ridotto over 65, diciamo così, lo comprerei per Amedeo Della Valle, invece.

Sì, Krunoslav Simon e Jamel McLean. Ma gli stranieri di una volta illuminavano le formazioni di cui facevano parte, quelli di oggi, anche qualora siano bravi, si perdono nell’omologazione.n