«Vedi, Caio? Durante una tappa del Giro dell’anno scorso siamo passati di fianco a un asilo: ho sentito le grida dei bambini che giocavano e ho immediatamente pensato ai miei a casa. In quel momento ho capito che era arrivato il momento di smettere».Dopo anni passati fianco a fianco, uno a pedalare e l’altro a raccontare, posso dire di conoscere bene Ivan Basso. E la sua decisione di smettere l’avevo capita già da un po’ leggendogliela in quegli occhi incapaci di dire bugie. Ne abbiamo parlato tanto e tante volte e il sottoscritto, combattuto tra l’essere amico e l’essere cronista, egoisticamente non voleva accettare. Non voleva capire. Si rifiutava di pensare a un futuro senza Ivan nel gruppo,a mesi di maggio senza un Giro da seguire, a quell’orgoglio malcelato che ci portavamo dietro noi di Varese quando entravamo in sala stampa dopo una tappa e tutti i
colleghi più importanti ci guardavano con un filo d’invidia.E allora per un po’ avevo provato a convincerlo: dai, un’altra corsa. Dai, un altro applauso. Dopo le mille cadute, dopo la storiaccia del tumore, dopo le legnate e le vittorie: bisognava chiudere in bicicletta. Poi è stato Ivan a convincermi che no, aveva ragione lui: raccontandomi l’aneddoto dei bimbi all’asilo e aggiungendo che «un corridore quando corre per vincere non può permettersi di emozionarsi pensando a casa: quando succede, non è più un corridore».Ivan ora avrà tanto da fare: in un ruolo nuovo nel ciclismo e in un ruolo da riscoprire nella sua famiglia. Ma in queste ore viene fuori quella tristezza che a te non piacerà. Mancherai a tutti, Ivan. E mancherai anche a chi ti ha conosciuto ciclista e, col passare degli anni e delle pagine scritte, ti ha scoperto amico. Grazie di tutto: è stato splendido.