Se esiste un periodo dell’anno durante il quale la gente offre platealmente il peggio di sé è questo, con picchi di conclamata follia e pericolosità sociale collocabili tra il 22 e il 26 dicembre. Sono i giorni in cui ci sembra obbligatorio trascorrere estenuanti pomeriggi a sgomitare in un centro commerciale, all’angosciosa ricerca di un fantastico oggettino da 4 euro da regalare alla cugina di trecentoventiseiesimo grado o del nuovo elettrodomestico da lasciare sotto l’albero della suocera simpatica come un autovelox. Che poi, ammettiamolo: se la gente ha i nervi a fior di pelle bisogna capirla. Come rimanere calmi quando i nostri timpani vengono martellati da canzoncine raccapriccianti tipo “È Natale e a Natale si può fare di piuuuù?”. Inevitabile che la gente cerchi di
affogare il disagio, spaccandosi di pandoro, torrone, panforte, panettone con e senza canditi, datteri egiziani, frutta secca in porzioni bibliche e una quantità d’alcol tale da mandare in coma etilico un barista scozzese.Sia chiaro: a me il Natale in sé piace. Lo considero l’unica vera festa degna di questo nome, in mezzo a tante improbabili giornate internazionali dei nonni, degli zii, degli innamorati, del gatto, dell’ippopotamo nano o del pesce sega. È la frenesia che lo precede a lasciarmi perplesso. E a gettarmi nello sconforto quando mi trovo imbottigliato in code chilometriche a tutte le ore del giorno.Ora però basta chiacchiere, non posso più perdere tempo: devo correre a comprare un portachiavi in plastica che se lo schiacci partono le note di Jingle Bells.