All’inizio della settimana, alla Sala Montanari, l’assessore alla cultura del Comune di Varese, l’architetto Roberto Cecchi, ha presentato le linee guida del “piano Marshall” per lo sviluppo turistico e culturale della città di Varese.
Pochi giorni dopo il sindaco Davide Galimberti ha annunciato il via libera alla realizzazione del nuovo teatro, interamente con denaro pubblico.
In questi tempi di vacche magre, nonostante le difficoltà del teatro pubblico che di fatto per sopravvivere deve assimilarsi al teatro privato, rappresenta un impegno straordinario per l’amministrazione.
Bene l’opportunità del finanziamento pubblico, che non deve essere messo in discussione. Non è sufficiente però se a monte non c’è una progettualità che supera l’aspetto meramente architettonico del bel edifico e affronta seriamente la questione della solidità gestionale e della continuità della proposta artistica e culturale.
Occorre sapere quello che poi si vuole fare al suo interno, la sua funzione, se puntare sulla peculiarità della sua proposta o diventare uno dei tanti palcoscenici in affitto.
Sono state scritte e dette tante cose sulla necessità di un teatro a Varese, eppure nonostante proclami, progetti, concorsi, rassicurazioni, non è stato fatto fino ad oggi niente di concreto per dotare la città dell’architettura e dell’istituzione del Teatro Stabile, uno dei luoghi più interessanti dell’esperienza culturale nel sistema teatrale italiano che, dalla nascita nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano (prima istituzione teatrale a partecipazione pubblica) nelle città dove è presente contribuisce alla formazione dell’identità collettiva e della riflessione: a Bolzano e Trieste ad esempio ha svolto un ruolo chiave per l’integrazione dei cittadini di lingue e culture differenti.
Come al solito, ogniqualvolta si considerano le sorti del teatro a Varese non si può ignorare la scellerata distruzione dell’antico Teatro Sociale, che non era pubblico come non lo era il primo teatro della città istituito per volontà ducale nel Settecento, che per riaprire dopo la guerra necessitava di importanti restauri ma colpito dalla crisi economico-finanziaria e dalla speculazione edilizia venne raso al suolo nel 1953 per far posto a un condominio. Una obliterazione che segna ancora profondamente l’immagine della città più di quanto in realtà abbia influito
sulle dinamiche di fruizione culturale in generale e di spettacolo dal vivo in particolare. Va riconosciuto infatti il successo della stagione teatrale avviata negli anni 80 dall’amministrazione comunale; o delle tante iniziative che negli anni si sono concretizzate e che dimostrano un interesse e una vitalità culturale mai sopita. Penso al Festival Tra Sacro e Sacromonte, quest’anno alla VII edizione, e Gocce, interessante rassegna di teatro contemporaneo alla V edizione, segno di una comunione di intenti e positiva progettualità che ha saputo trovare spazi “alternativi” all’edificio teatrale.
Non si possono ignorare neppure i reiterati tentativi pubblici di dare risposta al bisogno della collettività. A partire dal 1977, con la proposta di realizzare ai Giardini Estensi, dietro la scuola Silvio Pellico, un Teatro Tenda per 1800 spettatori fortunatamente mai costruito. Si realizzò un paio di anni più tardi – ridimensionandolo-, per iniziativa della Provincia di Varese, della cooperativa Teatro Girometta e del circolo culturale Spazio Vivo, nell’area dove oggi a Casbeno si trova il parcheggio di fronte all’Itis.
E più tardi, a cavallo fra il 1980 e il 1990, con i maldestri tentativi per realizzare il nuovo teatro nell’area di piazza Repubblica.
Di quella stagione salvo solo il progetto mai realizzato firmato dagli architetti Botta e Galfetti.
Fino al teatro Apollonio, inaugurato nel 2002 con la direzione artistica di Flavio Premoli e che ancora oggi funziona.
Non posso dare ricette per la soluzione di una questione annosa e complessa come questa: il concorso di idee ha donato al comune un buon progetto, il segnale politico è forte e chiaro e i tempi mi pare siano maturi. Ma si deve avere il coraggio di rinunciare a una proposta “generalista” dei contenuti se si vuole dar vita a un teatro stabile che vive della propria unicità e specifica connotazione.