“Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.
Sì, no o scheda bianca. Saremo chiamati a votare così, domenica 22 ottobre, pigiando un bottone sulle controverse “voting machine” che inaugurano per la prima volta nella storia il voto elettronico, per esprimerci sul Referendum consultivo per l’autonomia della Lombardia. Un’iniziativa fortemente voluta dal governatore lombardo Roberto Maroni, in coppia con il suo collega veneto Luca Zaia: quel giorno le due regioni che trainano l’economia italiana chiederanno ai loro cittadini di esprimersi sulla necessità, o meno, di aprire una trattativa con lo Stato italiano per concretizzare quegli spazi di autonomia che la riforma federale del 2001 può concedere alle Regioni a statuto ordinario. In Lombardia non è previsto un quorum affinché il referendum sia valido, mentre in Veneto dovrà partecipare la maggioranza degli aventi diritto e la maggioranza dei voti espressi dovrà essere favorevole al quesito.
Come detto, si tratta di referendum consultivo, in cui i cittadini sono chiamati a dare “una spinta” alle istituzioni regionali affinché facciano partire l’iter previsto dalla Costituzione per concretizzare il cosiddetto “regionalismo differenziato”. Si tratta della possibilità per le Regioni di ottenere maggiori spazi d’azione rispetto alle competenze ordinarie, sancita dall’art. 116, terzo comma, della Costituzione, che riconosce alle Regioni a statuto ordinario la possibilità di accedere a condizioni differenziate di autonomia attraverso una procedura articolata e complessa. La procedura istituzionale si avvia con un’iniziativa della Regione, sentiti gli enti locali, e si conclude con una legge dello
Stato approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Le “forme e condizioni particolari di autonomia” a cui possono accedere le Regioni riguardano tutte le materie attribuite alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni (dalle reti di trasporto al governo del territorio, dalla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi alle professioni e alla tutela della salute) e alcune delle specifiche materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (ordinamento della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
Per il governatore lombardo Roberto Maroni, in caso di vittoria del Sì, «il 23 ottobre si aprirebbe una pagina nuova e straordinaria. Nuova anche per la politica lombarda. Per una volta si unirebbero maggioranza e opposizione, avendo una partita difficile e ambiziosa da fare con il Governo italiano». Ma come sono orientati gli schieramenti politici?
Va detto innanzitutto che l’iniziativa referendaria è stata sostenuta al Pirellone dalle forze di maggioranza del centrodestra ma anche dal Movimento Cinque Stelle, che «si è battuto per coinvolgere i cittadini su una possibilità prevista dalla Costituzione: permettere a Lombardia e Veneto di gestire “in casa” molte delle risorse che ora è lo Stato a decidere come spendere. Altro che Padania e le bugie che i governi leghisti hanno raccontato per vent’anni ai cittadini».
Nel Pd, che era contrario alla consultazione, considerata inutile in quanto la richiesta di maggiori spazi di autonomia poteva essere avviata direttamente dalla Regione, si è registrata la presa di posizione dei sindaci dei capoluoghi che, a partire da Varese, hanno lanciato il loro endorsement per il Sì, un «Sì diverso», come l’hanno definito i sindaci di Bergamo e Milano, Giorgio Gori e Giuseppe Sala, per “disinnescare” la politicizzazione del voto fatta dal governatore Maroni. Contraria la sinistra radicale, con Rifondazione che chiama ad un «astensionismo attivo» e Mdp orientata anch’essa all’astensione, nell’ottica di un’iniziativa considerata «uno spreco di denaro pubblico».
Ma se la campagna elettorale vera e propria non è ancora entrata nel vivo – anche se in provincia di Varese il comitato degli amministratori locali di centrodestra (che il 20 settembre a Busto Arsizio convocherà una grande manifestazione chiamando a raccolta 1500 fasce tricolori, mentre il 21 e il 28 settembre a Luino e Gallarate farà spiegare le ragioni del Sì dal professor Stefano Bruno Galli, erede spirituale di Gianfranco Miglio), da un lato, e la presa di posizione dei sindaci Pd “a casa” di Davide Galimberti dall’altro, hanno fatto da “apripista” – finora le polemiche si sono concentrate soprattutto sui 23 milioni spesi da Regione Lombardia per le 24mila apparecchiature di voto, che assomigliano a dei tablet, che verranno distribuite nei circa ottomila seggi sparsi sul territorio. «Abbiamo fatto una gara, a cui hanno partecipato tre soggetti – la replica di Maroni – il costo non riguarda solo i tablet, ma tutto il servizio, comprese assistenza e formazione, ed è un investimento, non una spesa corrente. Non sono schede che il giorno dopo vengono bruciate o buttate al macero. Sono strumenti che rimarranno in dotazione alle scuole lombarde».