Renzo e Rosy, parabola di un partito

Vorrei dire al Trota di chiedere scusa a tutti quei cittadini onesti che vivono nel rispetto delle regole e delle persone; a chi si è laureato onestamente con molti sacrifici, a chi non ha un posto di lavoro, a chi lavora senza raccomandazioni, a quei militanti onesti che onoreranno ancora la Lega Nord.

Gian Domenico Gilardoni
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Le scuse le ha già chieste il padre, verranno anche le sue. Devono venire. Ne dovrebbero venire d’ulteriori. In tanti sapevano e sussurravano, ma subivano senz’avere la minima intenzione d’intervenire. Semmai e forse (probabilmente) con quella di profittarsene. La Lega non sarebbe costretta a rifondarsi se dentro la Lega ci fosse stata più attenzione a non autoaffondarsi, conservando il patrimonio di genuinità e consenso costruito negli anni.
Quanto a lui, al giovane Renzo, non c’è bisogno d’insistere sugli errori che ha commesso: sono evidenti. Ma se ne sono commessi altri che li hanno incubati, e che adesso, solo adesso, il Senatùr ammette. Più (oltre) che colpevole, Renzo appare la vittima d’una situazione che gli han costruito attorno da quand’era ragazzino. Una vittima, tra l’altro, contro la quale si sta esercitando l’accanimento di molti che, fino a qualche giorno fa, si adoperavano per il contrario. Si stracciavano nell’adulazione. Ecco, è quest’aspetto ipocrita e perfino vile che aggiunge un tocco di mestizia alla vicenda.
Improvvisamente Renzo è divenuto un reietto, fin quasi a cambiare la natura faunistica suggerita dal paragone inventatogli dal padre: da trota a capro. Un capro espiatorio. Un che di sacrificale chiamato – assieme a Rosy Mauro – a pagare per tutti. Il che è tipico del giustizialismo con la coda di paglia, un imprinting nazionale che ha attecchito anche nelle terre segnate da forti venature d’antinazionalismo. Ai militanti e agli elettori perbene della Lega bisognerebbe chiedere scusa soprattutto per questo. E in aggiunta al Trota, la dovrebbe chiedere qualche pesce più grosso.

Max Lodi

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