Lo raggiungiamo al telefono, c’è sotto un gran vociare. Gedeone Carmignani, oltre ad essere tutto quel che sappiamo, è un nonno. Come tale, il nipote al parchetto vicino alla spiaggia ce lo porta tutti i pomeriggi. Due parole su chi sia Gedeone Carmignani le diciamo volentieri, ché non si fanno torti alla storia: ex di Varese (in biancorosso, prima giocatore e poi allenatore) e Parma (da allenatore), tanto per restare agganciati all’amichevole
di oggi a Masnago. Ma pure tanto e tanto altro: portiere di spessore nazionale (Varese, Juve, Napoli e Fiorentina le sue maglie più prestigiose), vice di Sacchi al Parma anni ’80 e ad Usa ’94, nello staff tecnico pure al Milan sempre di matrice sacchiana. Come dice lui: “Mio nipote rimane sempre ad occhi sgranati, quando qualcuno gli racconta che ho vissuto tutte queste cose. Perché per lui sono semplicemente il nonno”.
Tanto. Sono ai margini da quando il Varese, ormai sei anni fa, mi esonerò per chiamare Sannino.
Dico sempre che lasciare il calcio è stata una scelta obbligata: da una parte, ci si è dimenticati di me; dall’altra, io non mi sono arrabattato ad agganciarmi a qualche treno vincente o presunto tale. Insomma, una scelta un po’ di tutti, me compreso.
Tutto. A me piace il calcio, lo seguo appena posso, guardo di tutto.
Io non sono così catastrofico. Secondo me, non siamo così male come dicono. Magari non siamo al top e altre nazioni han lavorato meglio. Ma non vedo macerie e basta.
Non ci sono soluzioni astruse o geniali. Una cosa che farei subito è la possibilità per i club di serie A di avere squadre B nelle categorie minori. C’è troppo distacco tra Primavera e prima squadra
In generale, ripartirei dalla scuola calcio, da istruttori che propongano un modo sano di vivere questo sport, che puntino sull’entusiasmo che c’è nel correr dietro ad un pallone. Da questo punto di vista, ammiro molto quel che fanno Marco Caccianiga e la sua squadra al Varese. È un approccio sano e competente. Mio nipote è entusiasta.
In buona parte, è tutto lì. Un allenatore del settore giovanile non dovrebbe neanche essere interessato ai punti e alla classifica. Non ha senso se, ad esempio, una Primavera è fortissima e vince lo scudetto, ma vado a vedere la formazione e fatico a leggere i nomi perché sono tutti stranieri.
Mi viene in mente il Milan di Sacchi, e parliamo di quasi trent’anni fa. Tutti citano Gullit, Rijkaard e Van Basten, ma si dimenticano in fretta di Maldini, Costacurta, Evani e di tutto il gruppo cresciuto in casa.
È molto incerto, lungo, pure troppo. Io tornerei ad un numero sensato. Tra playoff e playout, giochi dieci-undici mesi all’anno. Per non parlare di certe serate invernale col turno di metà settimana. Però, è avvincente.
Molto semplice: giovani motivati, che corrano, e qualche ottimo uomo di esperienza.
Le premesse sono buone perché l’allenatore, innanzitutto, è quello giusto. Quando era il mio vice, glielo dicevo sempre: “Stefano, fai il corso, questo è il tuo lavoro”.
Di base c’è la preparazione. Poi, la concretezza. Bettinelli è un uomo concreto, che sa che cosa fare, sa dove mettere mano. Non vende fumo. Il mondo del calcio ti cambia di continuo sotto i piedi e devi essere ben ancorato per non farti trascinare via.
La prima squadra l’ho allenata due volte, e sempre subentrando in corsa (nel 2001-2002 a Ulivieri e a Passarella, nel 2004-2005 a Baldini): la prima volta vincemmo la coppa Italia battendo in finale la Juve di Lippi, la seconda ci salvammo alla disperata allo spareggio contro il Bologna. Erano due Parma diversissimi: il primo era ancora figlio dei Tanzi; il secondo era in pieno commissariamento, con Bondi e Baraldi. Poi arrivò Ghirardi e io rimasi a casa. Fino ad una telefonata di un amico, Ricky Sogliano.
Albertini, perché lo conosco bene: è un ragazzo intelligente, preparato e che ha vissuto il calcio in prima fila. Tavecchio, invece, lo conosco molto meno.
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