Spartaco torna nell’arena per il Varese «Se il male bussa, basta non farlo entrare»

Il direttore Landini esce dall’ospedale dopo 3 mesi e mezzo, corre al campo e la squadra lo applaude «Ho vissuto ogni giorno per questo momento. Vi ho lasciato ed eravate salvi, sapete quello che va fatto»

Dove eravamo rimasti?»: dopo 120 giorni al Niguarda – «eh, ma non stavo mica male: più che altro ho provocato un po’ di trambusto perché quando arrivano a trovarmi i miei compagni della Grande Inter lasciano sempre il segno» – Spartaco Landini ritrova la vita e riabbraccia il Varese sotto le montagne a picco, sul campetto di Luino, alle 11.14 di un mercoledì che resterà marchiato a fuoco sulla pelle e nel cuore di chi c’era. Perché

quando il guerriero, che se n’era andato ferito a morte dal nemico peggiore, torna nella sua arena più forte e vivo che mai, il pubblico si alza in piedi. E applaude. Come hanno fatto i giocatori del Varese, che si stavano già allenando, appena si è avvicinato al campo il loro direttore, che aveva già le mani alzate e plaudenti quasi per sdrammatizzare, con quell’autoironia che nascondeva un senso di liberazione dalle catene degli ultimi mesi.

Prima gli si è fatto incontro Stefano Bettinelli («Il sole c’è sempre stato, bastava cercarlo e ora eccolo qui. Ora eccoti qui, amico mio») mentre là in fondo i giocatori improvvisamente si fermavano, in un silenzio maestoso e affilato. Nel lungo abbraccio del Betti a Landini – così asciugato da risplendere ancora di più in tutta la sua secchezza e semplicità – mentre il gruppo iniziava ad applaudire, c’era l’orgoglio di una famiglia che ritrova un padre al ritorno dal fronte, che qualcuno forse dava per disperso: non noi, non voi, non loro.
Ed è lì, con i giocatori, Papini e Ambrosetti radunati a semicerchio e a braccia conserte davanti a Bettinelli che appoggiava la mano destra sulla spalla di Spartaco, che il Guerriero parlò: «Ogni giorno ho immaginato questo momento, e adesso che lo vivo posso dirvi che me lo sognavo proprio così. Siete gli stessi che ho lasciato tre mesi e mezzo fa, siete la stessa squadra che era salva in serie B quando me ne sono andato. Non è cambiato nulla, e se ascoltate bene il vostro cuore lo sapete. Potete fare qualunque cosa e battere ogni avversario perché me lo avete già dimostrato ma non sarete soli perché quello che va fatto, lo faremo assieme».

Guardando in faccia uno a uno i biancorossi, il Guerriero a un certo punto si è tolto il cappellino blu che la moglie Giovanna gli aveva schiacciato sulla testa prima che uscisse di casa mostrando la pelata dovuta ai tre cicli di chemioterapia, e con gli occhi più formidabili e fiammeggianti che ci sia mai capitato di incrociare nella storia del Varese, ha indicato l’Omino di Camposampiero: «Vedi Zecco, adesso sono come te. Bravo e forte come te». Altro applauso che non copre il tum-tum sotto il petto dei giocatori. «Ragazzi, la malattia non si è mai affacciata alla mia stanza – ha proseguito Landini – perché mia moglie e le mie figlie non l’avrebbero fatta entrare. Quando soffrirete, guardate il compagno che avrete vicino: se siete convinti che lui arriverà a salvarvi, accadrà davvero. Ho visto tutte le vostre partite e non avete mai

smesso di correre, di crederci, di aiutarvi. Questo merita un grazie. Non siete voi che applaudite me, sono io che applaudo voi». Poi, passando in rassegna la truppa, Landini ha stretto la mano di ogni giocatore (in quella mano c’è tutto, una ferma delicatezza più forte di un pugno), fermandosi a scherzare in particolare con Borghese, Zecco, Corti – frase leggendaria di Ambrosetti: «Quando Corti in allenamento si incazza con tutti, il Varese vince» – e Culina (lo conosceva dai tempi dello Spezia), andando poi a sedersi in panchina accanto a Lele Ambrosetti, Silvio Papini e Carletto Soldo, l’ex Inter dal cuore biancorosso che riuscì nell’impresa di salvare il Varese fallito nell’87 (un altro segnale), e che l’ha accompagnato da Milano a Luino. «Questo è niente per Spartaco – ha detto Carletto – perché noi dell’Inter in campo battevamo avversari che picchiavano ben più duro».

Su quella panchina, e poi in piedi solo a metà campo, guardava i giocatori come si fa con i cavalli prima della corsa per studiare chi ha la gamba e chi no. E pensava: «Tre giorni fa mi hanno dimesso e mi hanno detto: “Esci e fai la vita di prima”. Io ho risposto ai medici: a tavola posso bere il solito bicchiere di rosso?». Sul finire dell’allenamento («La gamba c’è, stiamo bene»), ha poi urlato al Betti «puoi farmi entrare un quarto d’ora?» senza sapere che stava già giocando da ore. Da dio. Da capitano. Da Spartacus.

Da tempo non respiravamo un’aria così bella e pulita a un allenamento del Varese. Ambrosetti scherza con Soldo: «Ti ricordi quando non mi facevi giocare mai e andava a finire che segnava sempre Mosele?». Martino Borghese a ogni giro di campo – ha una piccola contusione, ma a Bari ci sarà – si prende una pacca sul culo da Spartaco e Lele: vai, Martino, vai. Zecchin è finalmente felice («A Zecco devi voler bene, poi ci pensa lui») e il tempo passa tra una telefonata a Ricky Sogliano («Adesso vediamo il da farsi») che è il fratello di Landini, e un sms di Ivan Basso («Lele, sei sul Cuvignone: non girarti mai, guarda avanti e pedala»).
Nessuno pensa all’ultimo posto perché è troppo bello stare qui, assieme e ora, per volare con la testa altrove. È troppo bello pensare che non ci sia una fine se hai davanti l’uomo che da quella fine è appena tornato: basta ascoltarlo.
Ma lunedì quando tornerai ricordati di portare il cappellino, e magari anche la sciarpa, Spartaco: se no, la senti Giovanna. A tutto il resto pensiamo noi.