Dice e tramanda Giampiero Boniperti: vincere è la sola cosa che conta. La Juve ce l’ha stampato sotto il colletto della maglia. Anche per gli altri è lo stesso: o vai al sodo o vai a ramengo. Però quando ci riesci, trovi chi ti obietta, ti critica, ti spacca in quattro. Vincere non basta, bisogna convincere. Se no che vincere è? Meglio perdere: più giusto, più razionale, più etico.
C’è toccato di sentire anche questo, dopo il pareggio bianconero a Montecarlo, lo sbarco nelle semifinali della Champions League, la conquista d’un traguardo che a Torino mancava dal 2003. Allegri, l’allenatore dei campioni d’Italia, ha subìto il processo da svariate corti d’accusa. Primo giudice – inflessibile, inesorabile inconfortabile – Arrigo Sacchi (che al mondiale degli Usa presentò una delle peggiori nazionali azzurre): non si gioca così, vergogna, il calcio italiano dovrebbe proporre ben diversa immagine di se stesso.
Difatti la sta dando, con la sua squadra-simbolo. La Juve che entra nell’olimpo del football europeo, appaiandosi a Bayern-Real Madrid-Barcellona, ottiene un prestigioso risultato per se stessa e per tutto il nostro movimento calcistico. Ci arriva non casualmente né solo in seguito alla partita difensivistica contro il Monaco, peraltro simile a tante disputate da club del presente e del passato (l’Inter di Mourinho non s’atteggiava diversamente, il Chelsea di Di Matteo – che vinse la coppa con le orecchie – neppure, l’Atletico Madrid di Simeone, l’anno scorso finalista, idem. E l’elenco potrebbe essere più lungo).
Lo ottiene perché nel 2010 è stata capace di rifondarsi, di progettare con lungimiranza, di darsi un modello d’organizzazione esemplare, di massimizzare le idee minimizzandone i costi d’attuazione. Quando Andrea Agnelli assunse la presidenza, prese poche e cruciali decisioni: 1) circondarsi d’un ristretto gruppo di collaboratori di provata competenza/esperienza; 2) risanare il bilancio in profondo rosso, esito della retrocessione succeduta a calciopoli; 3) costruire il nuovo stadio, imprescindibile nel rilancio sportivo-economico. Risultati: 1) l’amministratore delegato Marotta (ex varesino: un orgoglio biancorosso) e il direttore sportivo Paratici han dimostrato acume e realismo nelle operazioni di acquisto/vendita dei giocatori, mettendo a disposizione dei tecnici “rose” fortemente competitive, tanto che in un quinquennio si sono vinti tre scudetti e due supercoppe italiane; 2) la realizzazione dello Juventus Stadium – con annessa una serie di servizi, comfort e opportunità culturali/sociali – ha permesso d’elevare il tetto degl’incassi, di migliorare in un ambiente ideale le prestazioni casalinghe, di diffondere nel mondo un’immagine di cura, efficienza, bellezza; 3) la risalita dei conti – cominciata da un fatturato di 156 milioni e un deficit di 95,4 – s’è dimostrata costante. L’ultimo volume d’affari ha toccato la soglia dei 315,8 milioni e il saldo negativo s’è ridotto a 6,7 con la speranza fondata di conseguire il pareggio nel prossimo esercizio. Nelle recenti settimane il titolo Juventus, quotato in Borsa, è andato crescendo.
Dunque un’impresa di successo. Sul campo e fuori dal campo. Nello sport, e non solo. In Italia e all’estero. E tuttavia, poiché siamo appunto in Italia e non all’estero, anziché celebrarla come merita, le si dimostra ostilità come affatto meriterebbe. Ancora una volta bisogna dar ragione a Ambrose Bierce, che non è il centravanti argentino destinato in futuro a sostituire Tevez ma un ex stravagante scrittore americano: «Le calamità sono di due specie: la disgrazia che capita a noi e la fortuna che capita agli altri». Guai alla Juve, imperdonabilmente abbandonata dalla disgrazia e toccata dalla fortuna.