Lui è un imprenditore foggiano che da quattordici anni risiede a Gavirate, dove ha aperto e condotto alcune fortunate attività commerciali.
Lei si chiama Foggia Calcio e dopo 18 anni si è riaffacciata sul palcoscenico del grande calcio, qualificandosi per il terzo turno della Coppa Italia: un amore (e un’occasione) che vale bene un viaggio di 500 chilometri. Loro sono quelli che hanno rovinato per l’ennesima volta tutto, quelli che chiamare tifosi è un insulto, un insulto più grande persino di alcuni vocaboli tipici del loro frasario.
Sono i protagonisti della brutta storia che verrà raccontata nelle prossime righe, ennesima puntata di una saga che vede i campi sportivi come un teatro che non conosce chiusure. Il 15 agosto Graziano Cocca decide di fare uno strappo alla regola e di concedersi un regalo: andare a Verona a vedere il suo Foggia, impegnato in Coppa Italia contro la ben più blasonata squadra di Andrea Mandorlini. L’evento è degno di nota: dopo un fallimento e tanti anni di anonimato, il positivo campionato 2014/2015 (serie B sfiorata) ha concesso ai pugliesi l’accesso alla competizione, fosse anche solo per una comparsata estiva. È così che il signor Cocca lascia il suo locale – il rinomato Villa Cocca sulle sponde del lago di Varese – per raggiungere il Veneto insieme al fratello e a un minore, con la convinzione di passare una serata diversa dalle altre vicino alla sua squadra del cuore.
Il gruppo arriva allo stadio Bentegodi e assiste all’inizio del match, acquistando un biglietto per il settore “poltronissime blu”, non certo uno di quelli più popolari. Il Foggia passa incredibilmente in vantaggio e Graziano esulta insieme ai suoi compagni di viaggio: «Giuro che abbiamo solo esultato – racconta – Nessuna provocazione: ci siamo semplicemente alzati». Tanto basta, però, a commettere un “reato”, uno di quelli in vigore nel famigerato codice del pallone. Passa un minuto e uno steward in servizio allo stadio si avvicina, invitando il gruppo a lasciare il settore e a raggiungerne un altro. La motivazione? «Ci hanno detto che se non l’avessimo fatto sarebbe successo il finimondo».
La “deportazione” avviene sotto una colonna sonora tutt’altro che gradevole: «I tifosi del Verona delle poltronissime ci hanno gridato “terroni”, “africani”, “puzzate”, “fate schifo” e altre amenità del genere. Gli steward ci hanno portato in una sorta di gabbia con altri foggiani cui era capitata la stessa sorte. Ho chiesto l’intervento del responsabile della sicurezza: mi hanno detto che sarebbe arrivato, ma non si è presentato nessuno. Alla fine ce ne siamo andati a casa».
L’amarezza – a distanza di due giorni – fa ancora compagnia alla rabbia: «Siamo stati deportati per il solo fatto di aver gioito – afferma Cocca – Abbiamo pagato un biglietto che praticamente non abbiamo utilizzato. Il tutto nell’indifferenza generale, come se fosse una cosa normale: ma la Lega Calcio che parla di non violenza sa che succede questo negli stadi?». La vicenda del residente di Gavirate è stata ripresa dalla stampa foggiana e lo sfortunato protagonista ha incassato la solidarietà dei tifosi del Chievo («mi hanno telefonato») e della moglie di Franco Mancini, storico portiere dei rossoneri deceduto tre anni fa: «La sua chiamata mi ha rincuorato e dato forza».
Resta il grido d’allarme: «Vorrei che quanto successo fosse conosciuto il più possibile. È ora di cambiare le cose: non esiste al mondo che una persona non possa passare due ore in tranquillità a vedere una partita di calcio».