Tra la frenesia di un mondo di giganti, costretti – come la vita – ad andare a cento all’ora, e la pace di un orto che guarda una tavola blu ci sono circa 40 chilometri. Meo Sacchetti è un costante viaggiatore sulla tratta Sassari-Alghero, è un pendolare della tranquillità: ogni giorno, abbandonata la palestra, si tuffa nelle curve che dai 225 metri del capoluogo scendono verso quel piccolo pezzo di Catalogna incastonato sulla costa sarda, sfiorando Fertilia e aprendosi infine al profumo e al rumore di un mare che fa l’amore con il Libeccio. Da Nureyev del basket italiano a Cincinnato che nasce e muore: toglie le scarpette di danza e indossa quelle grosse da contadino, ritirandosi dalla res pubblica cestistica e
amando la semplicità del bucolico. La metamorfosi si compie nel tragitto e il ritorno alla natura sembra escludere persino i cellulari: lungo la strada che degrada verso il mare i buchi nelle comunicazioni sono frequenti. Ma non irritanti. Il Meo richiama ogni volta, paziente, stando al gioco del viaggio che noi gli proponiamo, parallelo al suo: un flashback su quella che è stata la vittoria delle vittorie, uno sguardo al passato che vale come pausa da un presente che si chiamerà Armata Rossa e poi Varese. La sua Varese, sulla quale – però – i riferimenti temporali diventano difficili da catturare: è un “prima” che non si dimentica, è un “ora” da avversario e chissà se sarà mai un “poi” da condottiero.
Un piacevole ricordo e un’emozione che si rinnova nei particolari. Ogni tanto mi fermo a guardare i nostri tifosi che indossano le magliette celebrative, oppure mi sorprendo quando alla radio sento frasi come: «I campioni d’Italia di Sassari questa sera affronteranno…». Non mi sono ancora abituato.
No, per nulla. E sarebbe stato brutto se fosse avvenuto il contrario. Perché un uomo di sessant’anni non può mutare pelle per un successo. E il professionista deve avere l’umiltà di continuare a fare quello che faceva prima: cercare di rubare sempre qualcosa a quelli più bravi. Nessuno diventa perfetto, migliorarsi è un obbligo.
Per noi è una storia che si ripete, come lo scorso anno dopo le coppe del 2014. Allora i risultati ci hanno aiutato, quindi oggi non ci spaventiamo davanti a nulla. La sorte ci chiede questo, per esigenza ma anche per scelta.
E li vedo più forti e più orgogliosi di prima. Logan, con la carriera che ha avuto, è maggiormente abituato alle vittorie, anche se vincere quanto abbiamo vinto noi non gli era mai capitato.
La volontà è quella di fare meglio. Ed è infatti forte il rammarico per i due punti buttati via in Turchia alla prima giornata. L’Eurolega deve essere per noi una continua sfida: l’anno scorso ci siamo arrivati grazie a una wild card, quest’anno ce la siamo conquistata sul campo e siamo più orgogliosi. Dobbiamo giocare con l’essenza della pallacanestro, che ti dà sempre la possibilità di poter battere il più forte. Anche quando significa scalare l’Everest come davanti al Cska, che io continuo a chiamare Armata Rossa.
È una squadra in costruzione che sta vivendo tanti problemi di infortuni e quindi di gestione. Non mi piace dare un giudizio di ciò che non conosco: quello che emerge da fuori è solo questo. Quando l’infermeria si riempie subito si fa dura ed è persino difficile capire come muoversi e chi eventualmente cambiare. Ora c’è Ukic ed è sicuramente un bel nome.
Vorrei che i miei uomini avessero un approccio diverso rispetto al match contro Brindisi, valida formazione che ci ha fatto pagare l’inizio troppo soft. Giocando fuori casa la presenza fisica e la tensione giusta saranno ingredienti importanti.
A Varese c’è un grande problema: nei passaggi a vuoto – che possono sempre capitare – ci si ricorda troppo del passato, un passato che ha inevitabilmente formato un pubblico caloroso e molto esigente. Tornare sempre indietro è sbagliato: la storia deve servire solo per far capire a tutti ciò che c’è dietro all’oggi, ma poi bisogna guardare alla realtà e ripartire con quello che si ha. La riflessione sul tema, poi, è anche un’altra e per certi versi opposta.
È difficile fare entrare nella testa di giocatori che cambiano come figurine quello che è stato. È un problema di cultura sportiva ed è un gap che c’è ovunque nel nostro basket. Le faccio un esempio.
Un giorno ho chiesto ai miei ragazzi: «Ma lo sapete che Varese ha disputato dieci finali di Coppa dei Campioni consecutive e ne ha vinte cinque?». «Impossibile» mi hanno risposto. Li ho mandati a controllare. Dovremmo imparare a trasmettere qualcosa di più di quello che siamo.
Dopo aver disputato un buonissimo precampionato, ora ha bisogno di un periodo ulteriore di adattamento. Ha fisicità, atletismo, sa andare in campo aperto e ci può dare una mano a rimbalzo: lo abbiamo preso per questo e lo aspettiamo.
Deve capire cosa vuole fare nella vita. Il giocatore che diventa manager è più al sicuro, chi cerca di trasformarsi in un allenatore si prende un grosso rischio. Io il Poz non ce lo vedo dietro le quinte e quindi sì, sono contento che la rabbia per come è andato lo scorso anno l’abbia portato in Croazia.
Non ci penso. Sono diventato zen e non do più nulla per scontato.