Non sono solo i luccicanti crismi di una biografia a evitare, in una definizione, di accompagnare al sostantivo “personaggio” l’aggettivo “qualunque”. Capita, e nel mondo di oggi è spesso una sorpresa, di cogliere al volo delle qualità umane – gentilezza, disponibilità, professionalità –capaci di qualificare un interlocutore ben più di quanto possa fare il suo status. Che siano proprio queste il segreto del successo professionale raggiunto?
Dopo i due di picche presi da alcuni (permalosi) dirigenti nostrani, fare una telefonata nei pressi del Bosforo è come respirare una potente boccata d’aria fresca. Maurizio Gherardini è nel suo ufficio di general manager, trenta metri di distanza da una palestra in cui coach Zelimir Obradovic sta ultimando l’allenamento di rifinitura in vista di Fenerbahce Istanbul-Lokomotiv Kuban, scontro di Eurolega in programma in serata. La risposta arriva al primo squillo, il tempo concesso a un carneade è quello che verrebbe concesso a un premio Pulitzer, l’inflessione romagnola mette in agio. Colui che rappresenta, con Ettore Messina ed escludendo i rappresentanti del parquet, la parte migliore del nostro basket d’esportazione si racconta a La Provincia. Accettando di declinare il presente della pallacanestro in varie sfumature.
Il bilancio parziale è positivo. In Eurolega siamo stati costanti e in linea con le aspettative, ma manca ancora quasi tutta la Top16. Ora arriva il bello: il vero obbiettivo è andare avanti da qui in poi. Il campionato è stato più duro: abbiamo avuto qualche colpo a vuoto ma poi ci siamo ripresi, vincendo qualche match difficile.
Per quello che posso giudicare io a contatto con la sua quotidianità professionale, l’ambientamento di Gigi è stato veloce e proficuo: si è ben inserito sia nel nostro modo di vivere che di lavorare. I tifosi ne hanno fatto un beniamino, apprezzando le sue doti tecniche e la positività che esprime in tutto quello che fa. E trovo sorprendente come i supporter lo abbiano eletto idolo in così poco tempo, riuscendo a metabolizzare – e non era facile – la partenza di colui che è stato l’Mvp dell’ultima Eurolega (l’ala serba Nemanja Bjelica ndr): nessun vuoto è stato lasciato e questo dice molto sulle qualità di Datome.
Con lui non parliamo della Nba, se non saltuariamente per commentare qualche partita disputata o per sottolineare le prestazioni degli altri italiani, cui Gigi è rimasto molto legato. Non percepisco alcun rimorso da parte sua: ha scelto l’Europa per tornare ad essere importante. Ed è contento così.
Sa, io ho sempre avuto una fortuna, quella di seguire la passione per il basket senza mai legarla a un luogo specifico. Ho vissuto la pallacanestro di casa mia, quella di Forlì, poi quella fantastica di Treviso, poi ancora l’Nba e ora il ritorno in una grande lega: la gioia sta nel percorso. In questa professione assisti a crescite e decrescite delle varie pallacanestro: la Turchia, oggi come oggi, è leader nel basket europeo. E io, senza mai pormi limiti geografici, la vivo come un’esperienza molto interessante.
Nel suo futuro quale altra avventura ci sarà?
Il futuro è da vivere giorno per giorno…
Brutta non è decisamente la parola giusta. Il fatto è che il nostro campionato non ha più la dimensione che aveva una volta. E bisogna essere realisti: se non ci sono gli elementi per farlo diventare più ricco, è difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Oggi Turchia e Spagna sono decisamente davanti a noi e altre realtà stanno per sorpassarci, come la Germania. Detto questo, però, la nostra Serie A è equilibrata e tutta da vivere.
In realtà poco o nulla: quello che manca all’Italia sono i fattori determinanti per crescere. Le infrastrutture, in primo luogo. Noi del Fenerbahce abbiamo un’arena in stile Nba, ad Ankara ce n’è un’altra altrettanto moderna e funzionale, lo storico İpekçi di Istanbul verrà presto rifatto o rimodernato e altri cambiamenti sono in programma un po’ ovunque per gli Europei del 2017. Poi ci deve essere la ricchezza di aziende che credano nello sport. I segreti sono questi: allenatori e giocatori di un certo nome non arrivano per altri motivi.
Confesso: non tantissimo. Anche se ho sempre qualche amico che mi chiama e mi fa chiacchierare sul nostro basket. Non essendo dentro ai fatti, dunque, non mi va di esprimere particolari giudizi. Tranne uno: Varese, attraverso il suo consorzio, è stata leader di un nuovo modo – il più realistico possibile oggi – di fare sport. E ha fatto scuola in Italia. Una base molto importante quindi c’è: il resto attiene alle scelte e ai personaggi che le portano avanti.
Trovare qualcuno con le qualità giuste è tutt’altro che difficile. Non faccio nomi, ma vi assicuro che in Italia ci sono tanti personaggi, anche giovani, con voglia di fare e di crescere. Io ne percepisco la passione, il fermento: viaggiano, si aggiornano. Proprio l’altro giorno mi è arrivato un sms di un general manager di una squadra di A2: mi ha chiesto di poter passare un periodo con noi, per vedere gli allenamenti e conoscere la nostra realtà. Fare da sponda per me è una gioia: il materiale umano c’è, bisogna solo dare una possibilità, soprattutto a chi ha fatto la gavetta.
I primi anni sono stati fondamentali: ho imparato le regole, i meccanismi, gli aspetti tecnici. Per fare questa professione ci vuole una grande passione: è un lavoro che ti occupa h24, 365 giorni all’anno. Ti devi documentare, devi continuamente guardare basket, capire il basket, ragionare di basket: ogni giorno, ancora oggi, passo tre ore al computer per seguire tutto quello che succede nel mondo della pallacanestro.
Diverse e tutte negative per me, purtroppo (ride ndr). Da giocatore ricordo un match del campionato 1974-75. Con Forli avevamo l’A2 e c’eravamo qualificati alla seconda fase della Serie A. Era la prima volta per me a Masnago, con Varese che – tra gli altri – schierava il grande Bob Morse: fu scioccante, fummo bastonati sonoramente. Da dirigente non posso che citare lo scudetto del 1999 perso con Treviso: pensi che ne parlo spesso anche con Obradovic (allenatore di quella Benetton ndr). Varese è una realtà storica in Europa e lo rimarrà sempre. Averci a che fare, per me, è sempre stato particolare, sempre ai confini con l’impresa. Infine al mondo varesino mi lega l’amicizia con Toto Bulgheroni.
Sì, in questo l’Nba è estremamente organizzata, quasi un orologio. I giocatori appena scelti nel draft fanno una settimana di corsi per capire l’importanza dei media. Per tale motivo sono sempre disponibili: ne riconoscono il ruolo. E poi accettano le regole: criticare gli arbitri, per esempio, non è permesso; se lo fai paghi di tasca tua. D’altra parte anche gli stessi media sportivi hanno una qualità: cercano sempre di presentare il bicchiere mezzo pieno.
No, mai. Considero troppo importante il ruolo dei giornalisti. Mi è capitato di discutere, eccome, ma non ho mai avuto la necessità di non rispondere a qualcuno.
Il succo della vita è il non avere rimpianti alla sua fine. E io ne ho uno grosso: la finale di Coppa Campioni del 1993 ad Atene, persa dalla mia Benetton contro Limoges proprio nel finale, con Kukoc e compagni che avevano già le mani sul trofeo. Confermo: vincere l’Eurolega sarebbe un sogno.