Ci sono parole che, rilette dopo anni, pesano come macigni. E non ci riferiamo a elucubrazioni, analisi più o meno dotte, ricerche azzardate della verità o quant’altro. Parliamo di sentimenti. Di vita vera, vissuta, provata sulla pelle. Quella pelle che l’esistenza ha scalfito, scavato, segnato. Ci sono parole che in questi giorni tornano fuori dagli archivi ma anche dai cassetti della memoria di chi se le è sentite pronunciare. E fanno fermare il tempo, fanno spegnere i riflettori riaccesi con così tanta potenza, fanno sì che pagine su pagine non siano altro, in alcuni casi, che semplice inchiostro.Così parlava Paola, mamma di Lidia Macchi, il 7 gennaio 2007 a vent’anni esatti dal ritrovamento di sua figlia morta ammazzata in un’auto in
mezzo ai boschi di Cittiglio: «Per noi riaccendere i riflettori sull’omicidio di nostra figlia è sempre uno strazio, ogni volta. La nostra famiglia è riuscita faticosamente a superare il dolore. Ci siamo dati delle risposte, siamo andati avanti. La giostra dei sospetti non fa altro che sottoporci a uno stillicidio devastante». E ancora: «La storia di mia figlia non dev’essere solo un escamotage per fare dello spettacolo mediatico. Se deve essere solo un gran polverone, l’ennesima illusione, allora meglio lasciar perdere. Nessuno deve permettersi di speculare sul nostro dolore». Poi toccò papà Giorgio: «Mia figlia è una presenza viva, che ci rigenera ogni giorno e ci porta a fare cose che non avremmo mai pensato di riuscire a fare».
Parlavano così, i genitori di Lidia, seduti sul divano della loro curata villetta di Casbeno. Attorno un tripudio di sorrisi di Lidia, ritratta in fotografie e quadri in ogni angolo della casa. Erano i giorni in cui teneva banco la storia di un capello ritrovato sul corpo della ragazza che avrebbe potuto aprire nuovi scenari sull’inchiesta, all’epoca finita nel dimenticatoio. Oggi gli inquirenti hanno consegnato alla famiglia Macchi e al mondo intero il presunto assassino. Un nome. Un volto. La quadratura del cerchio. Forse. E allora ci si ritrova a fare i conti con quelle parole. Con quella dignità profonda, lucida e cosciente che ha accompagnato questa famiglia per oltre trent’anni. Che ha fatto crescere a mamma Paola e papà Giorgio altri due figli, facendoli convivere con quanto successo e unendoli ancora di più a loro. Un nucleo capace di trasformare il dolore in un cammino comune con altre decine e decine di genitori alle prese con la perdita di un figlio nell’associazione “Famiglie in cammino”. La fede. La droga. Il sesso. Il fanatismo, forse. Di tutto, di più. Parole su parole, perché il circo mediatico è questo. E se non ti adegui hai perso in partenza.
Poi spunta quel bigliettino nella casella postale della nostra redazione. Un foglietto qualunque, poche parole: «Ciao Lidia, riposa in pace». Una richiesta: «Mettetelo per me nel falò di sant’Antonio». E allora non esiste più niente. Esiste solo il silenzio, il rispetto. La presa di coscienza, questa volta, che la storia di Lidia ancora oggi scuote, fa riflettere, colpisce. Certo che l’abbiamo buttato nella pira, quel foglietto. È salito con il fumo fin là, dove volano ogni anno speranze e desideri. «Non ho pace, e in cuor mio spero che non ce l’abbia nemmeno l’assassino» disse quel giorno di dieci anni fa mamma Paola. Oggi, forse, per lei una speranza di serenità si è riaccesa. Mentre il fuoco si portava via i pensieri di tutta Varese. Verso il cielo, verso Lidia.