Puoi raccontare storie in italiano, ma quell’inglese seduto al bar non ti capirà mai. Puoi provare con il francese, ma anche lì, il tedesco ti guarderà, annuirà, ma non sarà riuscito a cogliere le emozioni e la passione che vivono dietro a quella storia. Un mondo, tante lingue. Ce n’è però una, universale, che supera qualsiasi barriera, distanza, corazza, categoria, diversità, colore e colpisce, dritta al cuore. È il megafono delle emozioni, l’interprete di tutti. Pochi la parlano bene, tutti la capiscono. La musica è un linguaggio, la musica parla. Semplicemente, naturalmente. Questa è la musica di . Un modo per entrare in contatto con gli altri e per imparare a conoscersi e a conoscere il mondo.
Gabor Lesko è un chitarrista di fama internazionale, è tra i più apprezzati arrangiatori, musicisti e produttori d’Italia e ha collaborato con mostri sacri della musica, dal leggendario (storico bassista di ) a , dalla dea a dei Beach Boys, fino alla recente collaborazione con dei Toto. Non ama i cliché e le categorie. Incasellare Gabor Lesko in un genere sarebbe un delitto: per conoscenze, per influenze, Gabor è un «cittadino del mondo» e anche un esploratore dell’universo musicale intero. Jazz, progressive rock, blues. Non importa. Lui suona, anzi, parla, senza categorie, senza definizioni.
Gabor nasce nel 1974 da genitori entrambi musicisti: papà ungherese direttore d’orchestra, mamma cantante lirica alla Scala di Milano. La musica è famiglia, è vita. All’età di cinque anni si esercita con il piano, a dieci s’innamora della chitarra. «Guardavo “Furia cavallo del West” e sono sempre rimasto affascinato dal personaggio di Mal che suonava la chitarra. Volevo fare come lui. Poi verso i 14-15 anni conobbi la musica di che suonava la chitarra come se fosse un violino. Fu amore a prima vista. Da lì la passione per la tecnica e per il virtuosismo». Ma prima di
tutto, prima del rock e del jazz, c’era la musica classica, c’erano mamma e papà. «La classica è un genere nato per suscitare emozioni. È una musica molto immaginifica ed evocativa, che ti fa viaggiare. Con le sue timbriche crea mondi, universi, sensazioni, dall’allegria alla tristezza. Attraverso la classica ho capito che tipo di musica avrei voluto fare. E sono partito da lì. Nei miei brani quest’influenza si sente, contagiata da molte altre che nella mia carriera ho conosciuto e apprezzato e a cui ho “rubato” qualcosa. Ma da lì ho capito che con la musica volevo far viaggiare».
Gabor nasce nella musica. E nasce anche in una cultura musicale particolarmente interessante. La classica gli regala la ricerca delle emozioni e dei suoni-immagine, la mamma gli insegna a cantare, il papà lo porta nei meandri della composizione, dell’arrangiamento e anche di una tradizione musicale nuova, quella ungherese. «Mi sono sempre sentito un cittadino del mondo: una papà ungherese, degli zii tedeschi, oggi una moglie slovacca, tanti anni vissuti negli Stati Uniti: ho potuto toccare le diverse culture e ciò mi ha arricchito come persona e come musicista. Dall’Ungheria ho importato i cosiddetti ritmi dispari: scrivo “storto”, colleghi e amici mi prendono in giro perché creo pezzi che non sono quasi mai in quattro quarti».
Ha viaggiato, ha studiato e ha parlato tante lingue. Ma solo con una si è trovato davvero a suo agio, solo con un linguaggio è riuscito ad arrivare alle persone: la musica. «È un veicolo per ricercare un sentimento da condividere insieme. Con la mia musica parlo, vorrei trasmettere e condividere i sogni, le emozioni che quest’arte ti può dare. Ho solo voglia di comunicare con gli occhi, con lo sguardo e con le note».
Tutto questo Gabor ce lo ha raccontato in silenzio e con una chitarra in mano. Lo abbiamo chiamato solo per chiedergli se la mamma era triestina o veneziana. Ed è veneziana.