Il “segreto” di Stefano Binda. Chi sapeva della sua dipendenza?

Venerdì la seduta sarà incentrata sulla tossicodipendenza dell’imputato

Chi sapeva della tossicodipendenza di Binda? E quando lo ha capito? Sembrano domande semplici in un processo per omicidio che si avvita su se stesso sempre più ma non è così. Secondo l’accusa Stefano Binda, 50 anni di Brebbia, arrestato il 15 gennaio 2016 con l’accusa di aver assassinato Lidia Macchi, studentessa di 20 anni, sua ex compagna di liceo, uccisa con 29 coltellate nella nottetra il 5 e il 6 gennaio 1987, la vittima che con Binda aveva una sorta di relazione segreta,

voleva aiutarlo a disintossicarsi. La relazione segreta, la misantropia dichiarata di Binda, lo stupro che Lidia avrebbe subito poco prima di essere assassinata (e che forse fu assassinata proprio in conseguenza di quel rapporto sessuale), la voglia di lei di salvarlo dalla droga costituiscono il legame tra i due che l’accusa sta seguendo. Legame di cui però ad oggi non è emersa traccia. Binda non era tra le frequentazioni di Lidia, era un semplice conoscente, ne la ragazza avrebbe mai manifestato la volontà di salvarlo dalla droga. Come detto in aula non soltanto dai tanti amici che all’epoca frequentavano i due, ma come testimoniato dalla stessa madre di Lidia: «mai sentito parlare di Binda», ha detto in aula, né in casa furono mai trovati i libri sulla droga la cui lista fu trovata nella borsa di Lidia al momento del ritrovamento del cadavere.

Quel legame da innamorati, quel legame tra salvatrice e tossicodipendente di fatto, ad oggi, non è mai emerso. Venerdì si torna in aula e la tossicodipendenza di Binda sarà al centro dell’udienza. Anche perché Patrizia Bianchi, la superteste che nel 2015 ha dato nuovo impulso alle indagini attribuendo a Binda la paternità della lettera anonima “In morte di un’amica”, recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia, ha dichiarato venerdì scorso di non aver mai capito, sino al 1993 quando Binda fu protagonista di un «episodio di droga in Statale e ci fu uno scandalo», queste le parole di Bianchi, che il suo amico del cuore si drogasse. Nemmeno quando lui, con un altro tossico, si fece accompagnare da lei nei boschi del Sass Pinì per una rose (all’amico) lei capì.

«Ero tanto ingenua – ha detto in aula – credevo stesso aiutando l’altro che si drogava». Pietro Catania, ex fidanzato di Bianchi, ha invece testimoniato come la superteste in due occasioni gli abbia detto negli anni 90, periodo in cui si frequentarono, di aver accompagnato Binda in due occasioni a comprare eroina, indicando anche i luoghi. Fu Bianchi, stando a Catania, a dirgli negli anni 90, che Binda secondo lei si drogava per superare il trauma di aver ucciso Lidia Macchi. Bianchi smentisce accusando l’ex di aver «detto menzogne per rancore». Il legame tra Binda e la droga a questo punto diventa rilevante non tanto per provare un rapporto con Lidia mai emerso se non nell’ordinanza che ha portato al suo arresto ma addirittura smentito in aula, ma per capire chi sapeva cosa. Tra Bianchi, Catania e tutti gli altri, sulla tossicodipendenza di Binda.