Non ci rimangiamo una parola di quello che scrivemmo a suo tempo su Bruno Cerella. Commentammo piuttosto duramente il suo addio, criticandone i modi e la gestione,puntando il dito su come Bruno se ne fosse andato firmando per Milano da un momento all’altro senza nemmeno fare una telefonata a chi, nel suo anno varesino, gli era stato vicino come un padre o un fratello maggiore (Max Ferraiuolo). Fummo così duri anche perché eravamo sinceramente dispiaciuti per quell’addio: Bruno era uno di quelli da tenere, in quella squadra di indimenticabili, per costruire quel nucleo attorno al quale mettere in piedi la Varese del futuro e portare avanti un progetto.Cerella, domenica scorsa, ha scritto una delle pagine di sport più belle ed emozionanti. Operato al menisco il sabato, è
sceso in campo il giorno dopo per la finale di Coppa Italia poi vinta dalla sua Milano: un recupero prodigioso, che solo uno come lui avrebbe potuto fare. Finita la partita, ha affidato a Facebook il suo pensiero: «Dopo aver vinto questa bellissima Coppa Italia, non ho avuto nemmeno il tempo di festeggiare perché mi è calata l’adrenalina e tutto ciò che ho passato le ultime 48 ore ed ora sono al letto con 39.3 di febbre. Qui non ci sono maghi, stregoni, miracoli, doping… Qui c’è la voglia di giocare basket come quando avevo 7 anni». Giù il cappello e grande, grandissimo Bruno. E oggi il nostro rimpianto per quell’addio diventa ancora più difficile da sopportare perché, diavolo: Bruno Cerella sarebbe proprio un giocatore “da Varese”.