VARESE Se n’è andato dal sagrato di San Vittore, in una Mercedes scura. Umilmente e fieramente in disparte, quelli che per il Peo erano un fratello e un figlio, Riccardo e Luca Sogliano, all’uscita della chiesa commosso nel velo degli occhiali scuri. Ma i gesti commoventi sono quelli invisibili: Fabrizio Castori, mister biancorosso, sbuca di nascosto quando la chiesta è già piena ed entra per
ultimo, in punta di piedi e defilatissimo; resta fuori, invece, in un silenzio che urla Fabrizio Bollini, difensore della prima rinascita dai dilettanti (’94) e compagno del figlio Virgilio in una vecchia Berretti biancorossa. Per rendere onore a Pietro Maroso, da Livorno ha preso la macchina l’ex questore Marcello Cardona: un gesto da uomo di calcio qual è, un omaggio intimo e non richiesto.
Poi Claudio Gentile e Devis Mangia, più tanti, tantissimi altri, alcuni gestiti dallo sguardo dolce di Silvio Papini: Carletto Soldo, Antonino Criscimanni, Moreno Ferrario, Carletto Muraro, Ambrogio Borghi, Dario Dolci, Gabriele Andena, Mario Belluzzo, Chicco Prato, Aldo Ossola, Giorgio Morini, e i rappresentanti della Curva Nord, anche con una sciarpa posata sulla bara. C’era anche il nuovo questore Danilo Gagliardi: chissà, magari Cardona gli ha raccontato qualcosa del nostro sport, da rispettare per quello che è, con le sue bellezze e storture.
Cicci Ossola, l’amico caro, parla con un brivido: «Una figura unica perché testimone di un modo di vivere che non può tornare nella società di adesso. È arrivato a Varese tardi, era il 1965 e aveva appena passato i trent’anni, ma prima lavorava oltre a giocare: questo fatto ha contribuito a fargli dare sempre quel qualcosa in più, emigrare per giocare e basta è stato come entrare in paradiso. Adesso che è nell’altro paradiso niente… succede che manca un amico».
Il Peo è stata la fortuna di Ernestino Ramella: «Mi ha fatto venire via dal mio paese in provincia di Pavia, mi ha regalato la serie B prima e la serie A poi. Senza la sua chiamata adesso non sarei nel mondo del calcio. Fuori dal campo lo facevo ammattire, ero un discolo vero. La verità: devo a quest’uomo quello che sono diventato. Abitiamo entrambi ad Avigno, nel dispiacere mi considero un fortunato: nelle mie passeggiate mattutine, potrò facilmente passarlo a trovare al cimitero. Un gesto semplice, mi rendo conto, ma è un pensiero bello».
Dei giocatori, Giulio Ebagua usa una parola (Toro) che sarebbe piaciuta al Peo: «È una persona che ha fatto la storia del Varese, umano, positivo, disponibile e pronto anche a darmi dei consigli. Ci ho pensato quando ho saputo della scomparsa, certe cose chissà perché ma ti vengono sempre in mente dopo: Peo è stato capace di aiutarmi con le parole giuste. E poi era legato al Torino, quella maglia per lui contava come quella del Varese: sono cresciuto granata, è un sentimento, oggi è bello immaginarlo capace di unire i tifosi delle due squadre».
Il Peo continuerà a vivere non è soltanto una frase fatta ma una realtà concreta, urlata a gran voce dal presidente Rosati: «Faremo di tutto – ha detto – perché a Maroso venga dedicata una fetta di stadio. Lui ha reso grande la società partendo dal nulla, ed è un tributo che lui si merita: per noi è un dovere, ma allo stesso tempo un piacere. Perché a me, ma anche a tutti i tifosi, farà piacere un giorno andare a sedersi nel “Settore Maroso”». Quale parte dello stadio? «Mi piacerebbe dedicargli la curva, perché lui la vedeva dalla sua finestra di Avigno. Mi piace pensare che il suo sguardo continuerà a posarsi su quelle gradinate, che avranno il suo nome».
Sul sagrato della Basilica, si parla del Peo: lo si piange, lo si ricorda, lo si rimpiange. Poerio Mascella fu lanciato da Maroso, verso una carriera lunga e importante: «Nemmeno lui – ha detto l’ex portiere – si rendeva conto di quanto fosse bravo, perché forse non si è mai preso troppo sul serio. Un allenatore come il Peo, oggi, non potrebbe esistere: troppa ipocrisia, troppa attenzione all’immagine. Mentre il Peo era sostanza».
Pietro Anastasi ha la forza di asciugarsi le lacrime e sorridere, pensando a Maroso: «Io sono arrivato qui – ha detto – che ero un ragazzino, lui per me è stato il padre protettivo e premuroso. Era un personaggio che incuteva rispetto, ma che sapeva anche scherzare: ricorderò sempre le sue prove di forza con Armando Picchi, quando si sfidavano nel piazzale dello stadio innevato a mettersi a torso nudo e buttarsi nella neve. Per vedere chi aveva più fisico. È stata, è e rimarrà sempre la bandiera del Varese, e quando si dice Varese si dice Maroso. Una volta l’avevo paragonato a Boniperti, e fu proprio il Peo a correggermi dicendomi che Boniperti non era mai stato allenatore della Juve. Quante guerre: io juventino e lui torinista, quante discussioni. Mi manca».
Bruno Limido, invece, piange: «Se ne va un pezzo della mia vita – ha detto l’ex centrocampista di Varese e Juventus – perché io e il Peo abbiamo continuato a lavorare insieme anche fuori dal calcio. Negli ultimi quindici anni, siamo stati fianco a fianco praticamente tutti i giorni. Tutta questa gente venuta a salutarlo è la prova di quanto la gente gli volesse bene, e lascia un vuoto enorme».
Francesco Caielli
Samuele Giardina
s.affolti
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