VARESE Il capolavoro del Generale. Come il vento. Prima soffia forte, poi si ritrae, e poi torna a spingere come un uragano fino ad abbattere il Verona. Che cade sotto i colpi di Rolando Maran e del suo esercito biancorosso, perché quel vento arriva da spalti trasformati in trincea. È la partita che Rolando aveva disegnato nei sogni: prima gente ubriacante (Rivas, Zecchin, Neto), poi gente che corre (Nadarevic, Granoche, Pucino). Prima la piuma Rivas che ondeggia e si posa dove vuole, poi le cavalcate di Nada, del martello Pucino e del Diablo.
In mezzo, una partita sontuosa. Come se la semifinale Varese-Padova di un anno fa fosse finita sul 2-0. Come se il tempo si fosse sdebitato. E su questi gradino resterà per sempre scritta una verità. Prima era il Varese di Sannino, adesso Maran è l’allenatore del Varese. Cioè di tutti.
Bressan coi guanti puliti fino alla mezzora del secondo tempo, attacco totale e poi nemmeno un pallone buttato via, nemmeno una stilla di energia dilapidata. Loro giocano sempre allo stesso modo, hanno due giocatori che ci fanno male come Hallfredsson – l’inserimento impetuoso, a volte gli basta un colpo di spalla per liberarsi
di Corti – e Tachtsidis – l’unico che ha la testa d’acciaio per ribattere l’urto. Ma noi ne abbiamo undici, e alla forza bruta rispondiamo con la bellezza della palla al piede e le magie di Rivas (più Ribery che Robben) che quando dribbla, punta e salta l’uomo o è gol o è assist.
Il pubblico come la squadra, ha interpretato la partita perfetta: ha capito che doveva aggredire l’osso, ha riempito lo stadio un’ora prima. Alla fine sembrava che Maran non avesse schierato solo la squadra in campo, ma anche il pubblico sugli spalti. Perché ognuno degli ottomila sembrava che sapesse esattamente cosa doveva fare: quando gridare, quando fischiare, quando applaudire, quando saltare. Ogni cosa al momento giusto. Quando parliamo di simbiosi tra gente e giocatori, intendiamo queste cose qui.
L’avevamo detto dopo il 3-0 del Bentegodi, anche se sembra passata una vita: loro hanno già giocato una finale, noi iniziamo a farlo adesso. Da quel 3-0 sono passati dieci giorni ma chi era allo stadio l’ha trasformata nella continuazione di quella partita. Che per noi non è mai finita. Per loro, invece, sì. L’aveva detto Peo Maroso, sicuro: questa la vinciamo noi. E anche la prossima.
Non è finita, ripartiamo da 0-0 e senza fare calcoli, se no finisce male. Dobbiamo entrare al Bentegodi facendo l’opposto di ciò che ha fregato loro: pensare umilmente che il Verona due di scarto al Varese li può dare quando vuole. Un po’ di sana paura ci tornerà utile. Sappiamo qual è l’unica cosa da fare: correre di più, urlare di più, morire di più. Metterci più cuore e più gambe.
E se in campo i papà di questo Varese sono Maran, Milanese, Montemurro e Rosati (in ordine alfabetico), noi in questa notte non dimentichiamo il primo padre da cui, nella polvere dell’Eccellenza, nacque la scintilla che ha portato a questo incendio: Ricky Sogliano. Non ce ne vogliano gli altri, ma questa vittoria la dedichiamo a lui. Perché se lo merita, e noi sappiamo il motivo.
Andrea Confalonieri
s.affolti
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