«C’era un ragazzo che dormiva in stazione: fece un solo gol e corse ad abbracciarmi»

Stefano Bettinelli porta i regalini ai bimbi ricoverati alla pediatria del Ponte e poi ci commuove così. «Buon Natale a Ousmane che non aveva i soldi per il biglietto in treno ma era più uomo di tanti altri»

Ieri pomeriggio, proprio all’inizio della settimana di Natale, al Franco Ossola c’erano i soliti fedelissimi che, come sempre, accarezzavano con la loro forte e a volte ruvida passione il Varese, intento ad allenarsi per preparare la trasferta di domani a Pescara. Stefano Bettinelli, dopo aver salutato i giocatori, è schizzato via veloce dallo stadio, senza dire niente a nessuno. I tifosi si sono chiesti subito perché il tecnico se ne fosse andato lasciando la guida della prima squadra al vice Oliviero Di Stefano e la risposta non è arrivata dal diretto interessato, perché Bettinelli è un uomo riservato.

Il condottiero del Varese ha vissuto un’esperienza forte, visitando all’ospedale Filippo del Ponte i bambini malati di leucemia. Un gesto nato dal cuore e custodito, come dev’essere, in segreto. Bettinelli ha però voluto condividere con tutti un’altra storia con uno scritto commovente che potrebbe essere la lettera del Natale biancorosso. Eccovela.
«Questa storia s’intitola “Non arrenderti mai” ed è una storia come tante altre. Una storia che farà sbuffare qualcuno, che magari ci vede cose già viste e sentite ma io, che la storia l’ho vissuta in prima persona dopo averne sentite anche io tante di storie come queste, ho voglia di parlarne. A mio modo.
È una giornata di allenamento come tante da quando alleno nel settore giovanile del Varese ma oggi di diverso c’è che mi viene presentato un ragazzo senegalese che si allenerà con noi e del quale dovrò dare un giudizio tecnico. Mi colpiscono la sua forza fisica e la sua voglia di fare subito parte del gruppo, entrando in sintonia con i miei ragazzi, e soprattutto mi colpisce il suo sguardo sveglio e triste allo stesso tempo: gli occhi parlano, dicono più di tante parole e tra di noi è già rapporto vero. Voglio capire di più di lui e lui ha voglia di raccontarsi: forse nessuno si è mai interessato ai suoi problemi, e forse davanti a lui qualcuno ha pensato solo a chiedersi se calcisticamente poteva diventare una fonte di guadagno».

«Mi racconta di lui – prosegue Bettinelli – della sua traversata dell’Africa all’Italia su un barcone con tanti altri disperati, di come i suoi genitori lo avessero spinto verso il nostro mondo sapendo che nel loro non avrebbe mai avuto futuro. Mi racconta delle sue notti passate dormendo in stazione centrale a Milano e della fortuna che aveva avuto incontrando una

persona che lo aveva aiutato a trovare un posto in una casa famiglia e a farlo tesserare per una squadra dilettantistica della città. Adesso diceva: “Almeno mangio tutti i giorni e ho un posto dove dormire anche se la mia famiglia mi manca da morire, mio papà è un uomo anziano e la paura di non poterlo riabbracciare mi fa stare male”».

«“Mister, mi dia una mano, ho tanta voglia di imparare e il calcio è la mia unica speranza”. Che fosse un ragazzo sveglio e intelligente lo si capiva subito anche dalla padronanza della nostra lingua nonostante fosse in Italia da appena sei mesi. Il mio giudizio tecnico-tattico non poteva essere positivo perché il ragazzo era indietro rispetto ai nostri parametri calcistici ma decisi di mentire con la società e di volergli dare quella chance che si meritava per cui, insieme ai dirigenti, stabilimmo che si sarebbe allenato con noi da gennaio a giugno e poi avremmo potuto decidere con più certezze.
Nei mesi successivi, il ragazzo fece del suo meglio per imparare, ci mise anima e corpo, anche se tra mille difficoltà, una delle quali era quella di trovare i soldi per il treno delle Nord che doveva portarlo a Varese. I ritardi erano sempre più frequenti e quando lo sgridai davanti ai compagni facendogli capire che le regole erano uguali per tutti e tutti dovevano rispettarle, abbassò la testa e gli occhi in un modo che mi fece sentire a disagio».

«Feci finta di niente ma lo fermai a fine allenamento per chiedere del suo comportamento. “Mister, io non ho i soldi per il biglietto e quando sale il controllore devo nascondermi, scendere a Saronno e prendere il treno seguente”. La sua spiegazione mi fece sentire ancora più in colpa per averlo sgridato. Gli dissi: “Ma il tuo procuratore non ti aiuta? Non ti dà qualcosa?”. Abbassò ancora lo sguardo e scosse le spalle. Ho capito ma in realtà avevo già capito: anche lui, come tutti gli altri, era solo una opportunità di guadagno. Che tristezza sconfinata.
Da quel giorno non gli mancarono più i soldi per la colazione e del biglietto del treno perché tutta la mia squadra, dai miei collaboratori ai ragazzi, fece a gara per non fargli mancare più almeno il necessario. Ho avuto anche l’opportunità, in occasione di un torneo di fine stagione, di schierarlo per una partita della Primavera e lui, passati solo cinque minuti, aveva già segnato. Non mi dimenticherò mai il suo bellissimo gol e la corsa verso la panchina. Mi ha regalato un’emozione fortissima».

«A fine di quella stagione, come sapete tutti, non sono stato confermato al Varese, che non ha nemmeno confermato il giovane perché ritenuto “troppo grezzo”: questo era stato il giudizio dei dirigenti che lo avevano scartato e rimandato al mittente. Ho provato a rendermi utile anche dall’esterno ma purtroppo non ci sono riuscito e questo rimarrà per me un grande dispiacere.
Le società calcistiche professionistiche non fanno, è vero, opere di bene ma i modi per aiutare chi ha bisogno, se si vuole, si possono trovare. Anche in questo caso si sarebbe potuta trovare una soluzione: bastava poco ma purtroppo ai gestori del calcio non interessa chi non è un buon affare.
Grazie Ousmane, grazie di aver fatto parte del mio cammino e semmai un giorno leggerai questo articolo ti chiedo scusa per non essere stato in grado di aiutarti come avresti meritato. Ma soprattutto ti ripeto: “Non arrenderti mai”. Un abbraccio forte e Buon Natale, ovunque tu sia».

Anche noi abbiamo provato a contattare Ousmane Gaye, leoncino del Senegal che avevamo conosciuto in un giorno d’estate dell’anno scorso, quando ci aveva toccato il cuore con queste parole: «Mangiavo alla Caritas e dormivo in stazione Centrale da solo, cercando di evitare i pericoli. Avevo paura e telefonavo a mia mamma che mi rincuorava dicendomi: “Ormai sei un uomo, puoi sopportare tutto e vedrai che le cose cambieranno”. Allora andavo avanti: e quando ho avuto la fortuna di far parte di una casa famiglia mi alzavo prima degli altri per andare a correre nel parco di via Palestro. Poi c’era la scuola per imparare l’italiano. Spesso sono andato agli allenamenti senza mangiare perché dovevo prendere il treno e non avevo tempo o non avevo i soldi. Mi chiedevo che cosa avrei fatto se mi fossero mancate le forze e mi rispondevo che dovevo avere il cuore di un leone e preferire morire piuttosto che mollare».

Ai dirigenti che lo hanno scartato chiediamo: “Ma un giocatore che parla in questo modo, a 18 anni, non è forse uno da Varese?”. La domanda è retorica alla vigilia di un Natale che, comunque vada la trasferta di domani a Pescara, sarà radioso per i colori biancorossi. Perché al timone di questa squadra Unica c’è Stefano Bettinelli. Uno dei pochi uomini che in Italia può cambiare il calcio.