Le piste ciclabili possono essere uno strumento moderno, utile, persino necessario in una città che vuole guardare al futuro. Ma dipende da come si realizzano. Perché quando diventano un dogma ideologico, imposte come un obbligo politico più che come una scelta razionale di mobilità, allora smettono di essere infrastrutture e si trasformano in un problema. È esattamente ciò che sta accadendo a Varese.
Il caso di viale Belforte è emblematico. Un quartiere già fragile, con un traffico storicamente complesso, attività commerciali che vivono di accessibilità e flussi veicolari, si ritrova ora a subire l’ennesimo “esperimento urbanistico” calato dall’alto. Il risultato? Corsie ultra-ridotte, viabilità stravolta, code che aumentano, nervosismo crescente e la percezione diffusa che la città venga governata più con slogan che con buon senso.
Non è una battaglia tra automobilisti “cattivi” e ciclisti “buoni”. È una questione di metodo. Qui non siamo davanti a un progetto pensato in modo organico, inserito in una pianificazione complessiva della mobilità cittadina. Non c’è un collegamento funzionale tra quartieri, non c’è una strategia coerente sull’uso della bicicletta come reale alternativa. Ci sono interventi spot, frammentati, scollegati, realizzati con la logica del “bisogna farli perché fa moderno, fa green”. E quando l’urbanistica diventa propaganda, i cittadini pagano il conto.
Il mondo reale non è fatto di slide, rendering e slogan green. È fatto di lavoratori che devono raggiungere il posto di lavoro, genitori che accompagnano i figli a scuola, mezzi pubblici che devono circolare, camion che devono consegnare le merci, negozi che vivono di passaggio. Tutte esigenze reali, quotidiane, concrete. Esigenze che, in questa impostazione, sembrano non essere mai state davvero ascoltate.
A questo si aggiunge un’altra questione: l’assenza di dialogo. Quartieri informati poco e male, commercianti che apprendono decisioni già prese, comitati cittadini costretti a rincorrere progetti già definiti e lavori già iniziati. La partecipazione, quella vera, non può ridursi a un paio di incontri formali a decisioni già chiuse. E quando una trasformazione urbana è percepita come imposta, la reazione è inevitabile.
C’è poi il tema politico. A un anno e mezzo dalle elezioni, Galimberti sta giocando una partita molto rischiosa. Perché la narrazione del “progresso sostenibile” funziona finché non tocca il quotidiano delle persone. Quando però la gente inizia a passare mezz’ora in più in coda, quando i negozi vedono calare i clienti, quando i residenti si sentono ostaggi dei cantieri e dei restringimenti, allora il consenso evapora rapidamente. E le ciclabili ideologiche rischiano di diventare il simbolo perfetto di un’amministrazione percepita come distante, autoreferenziale, più attenta ai modelli delle grandi capitali europee che alla realtà specifica di Varese.
Esistono città dove la mobilità ciclabile funziona. È vero. Ma lì dietro c’è una progettazione strutturale, una rete continua, un vero ripensamento dell’intero sistema urbano, non un puzzle di tratti scollegati inseriti a forza. E soprattutto c’è stata condivisione, gradualità, capacità di spiegare, ascoltare, correggere.
Qui no. Qui la sensazione è un’altra: che la bicicletta sia diventata una bandiera, più che una soluzione. E quando le bandiere sventolano troppo alte senza radicarsi nella realtà, prima o poi si trasformano in boomerang. Politico, amministrativo e, soprattutto, sociale.













