L’ora che precede la battaglia è ricca di pensieri fluttuanti e di immagini che scorrono, contribuendo a sceneggiare una storia di cui l’anima e la mente si fanno proiettori. Sullo schermo c’è il passato prossimo, passano i frame di una stagione cambiata in meglio e di una coppa (“coppetta” è più bello perché scomodo ma veritiero, oltre che un talismano che ha portato fortuna: è un’ammissione che nulla toglie alla
felicità di un cammino notevole) da vincere: noi ci vediamo lo Zibi Boniek de noantri Giancarlo Ferrero che la mette dall’angolo, ammiriamo un Tempio mezzo vuoto che si fa sentire più di un palazzetto stracolmo ma apatico, ci scorgiamo una fiducia che cresce a poco a poco come un fiore a primavera e un condottiero che esulta perché lui – solo lui – sa tutta la fatica che ha fatto.
C’è anche il passato remoto, tuttavia. E si tratta di colori sfuocati, lontani, belli ma anche un po’ tristi: sono quelli dell’ultima finale europea, risalente a ben 31 anni fa. Bruxelles, 21 marzo 1985, ultimo atto della Coppa Korac: è derby, Varese-Milano, ed è soprattutto un ricordo rimasto sospeso fino a questo strano venerdì 29 aprile. Lì – con una sconfitta (91-78)- si interruppe l’epopea varesina in Europa, terreno di caccia preferito del decennio precedente: arrivare fino a oggi vuol dire quindi “surfare” su una mancanza lunga quasi quanto metà di una vita. Enorme. “Troppo” enorme.Ben tornata a casa allora, Varese di Chalon che ti appresti a cullare il tuo personalissimo sogno. Chi c’era in quella che fu la tua ultima dimora continentale c’è in fondo anche oggi, perché non se n’è mai andato dal cuore di nessuno: «Segnai 28 punti, sì. Ma non bastarono: come tutti i ricordi brutti, allora, io quella finale l’ho cancellata». Meo Sacchetti, questo pomeriggio, farà di tutto per cercare uno streaming adeguato («sì, per Varese pagherò quei benedetti 7 euro…» ride) e non perdersi la nuova puntata di un racconto che riprende il filo: «Non avrei mai immaginato che quella sarebbe potuta essere l’ultima finale europea, lo confesso. È vero che il meccanismo era diverso e dovevi vincere il campionato o poco meno per partecipare a una coppa, però di tempo ne è passato davvero parecchio».
Il Nureyev dei parquet quella sera del marzo ’85 danzò in un Palais du Midi che sembrava una palestra dell’anteguerra («Era troppo piccola, in mattoni: non ho mai capito perché ci fecero giocare lì»), mentre oggi – da osservatore esterno che esterno non sarà mai quando si parla di Varese – fa i complimenti alla squadra di Moretti: «Era partita con poco ambizione in questa Fiba Europe Cup, poi le cose sono andate nel verso giusto e ha meritato le Final Four. Con Wright è diventata un’altra cosa».C’è il Meo, ci sono 410 temerari che da stamattina attraverseranno i confini perché ad ultimo atto non si guarda in bocca: ci si sgola, punto, soprattutto dopo una stagione del genere. C’è una buona parte di città che si stringerà davanti al maxischermo di piazza Monte Grappa e a cui non importa che gli avversari si chiamino Armata Rossa, Real Madrid, Maccabi o Chalon: basta Varese. Ci sarà la squadra di Moretti, quella diventata bella, forte, regolare, godibile ma ancora – se si ragiona solo in termini di traguardi – incompiuta? Lo diranno dalle 18.30 in poi i padroni di casa dell’Elan, una Sassari di Francia che viaggia sulle ali dell’ex virtussino Jeremy Hazzell, mano calda e spirito garibaldino (o napoleonico): un avversario che corre, aggredisce, gioca a fare un punto in più di chi sta di fronte a lui, non importa quanti ne subisca. Per la Openjobmetis c’è la chance di lasciare il primo di due segni indelebili a un’annata che avrebbe dovuto passare scevra da qualsiasi gioia, come una brutta parentesi da dimenticare in fretta. Te la senti Varese? La vuoi riprendere in mano la tua storia?