Cucina tradizionale? No, io la chiamo classica

Silvio Salmoiraghi veste i panni dell’umanista del gusto, in questa puntata di Cucinando dedicata al concetto di classicità in cucina. Le sue riflessioni si contrappongono alla vulgata legata al concetto di tradizione e sono illuminanti perché propongono un approccio nuovo alla materia prima. Quale? Ce lo spiega uno chef che sposa la conoscenza di tutti i classici italiani, da quelli più popolari a quelli più ricercati, alla padronanza della tecnica appresa da un Maestro impagabile come . La penna passa dunque allo chef, proprietario dell’Acquerello di Fagnano.

È importante tornare alla cucina classica. Non mi stancherò mai di ripetere questo concetto che si contrappone a una mentalità comune. Mi piace essere chiaro e propongo di abbandonare il termine “tradizionale”, troppo spesso abbinato alla cucina italiana che è molto tecnica e, per questo, classica. Finiamola col pensare alle nostre ricette come a quelle della mamma, della nonna e del territorio. Al contrario, non dobbiamo avere paura di prendere spunto dai francesi che hanno un approccio diverso riguardo alla loro cucina, considerandola appunto classica. Se è classica quella d’oltralpe, a maggior ragione, è classica la nostra, a cui non manca nulla.

I tortelli, i tortellini e gli agnolotti presentano difficoltà di lavorazione non indifferenti e richiedono conoscenza della tecnica: sono specialità classiche e tali vanno considerate, proprio come i francesi fanno, a ragione, con la loro salsa bernese. Allo stesso modo, il coniglio è un classico, che avrà interpretazioni differenti nelle diverse regioni italiane: in Liguria si fa con le olive e in Sicilia con lo zafferano, solo per limitarci a qualche esempio.

Vorrei ora soffermarmi su quello che considero un ingrediente: il territorio. L’Italia è uno dei pochi posti, oltre alla Grecia, in cui si mangia la piovra, pressoché sconosciuta in Francia. Ogni regione la declina secondo le peculiarità della propria terra e in Campania troviamo il polpo alla luciana, con pomodoro, basilico e limone.

Che il territorio sia un ingrediente lo si capisce anche dando un occhio ai primi piatti più noti del Lazio, dove gli spaghetti si cucinano con cacio e pepe, alla carbonara, all’amatriciana e alla gricia. Sono più o meno tutti simili: nella gricia c’è pancetta, pecorino e cipolla, nell’amatriciana si aggiunge il pomodoro e poi c’è il guanciale.

A proposito di maiale, ecco un altro grande classico che va riscoperto. In Sardegna troviamo il porceddu, in Calabria si mangia quello grande e mai ci sogneremo di cucinare quello padano, destinato alla produzione di insaccati. Tra Parma e Reggio si trovano molte porcilaie accanto ai caseifici: questi maiali vengono nutriti anche con lo scarto del parmigiano per sviluppare grasso e diventare grandi salumi.

Il maiale merita di essere riscoperto come grande classico da cucinare, sia esso quello nero dei Nebrodi, che si trova in Sicilia, sulle Madonie, o di un’altra razza.

Stesso discorso per l’agnello: adesso nel mio ristorante sto impiegando quello sambucano, proveniente dalle montagne dell’occitana Valle Stura, in provincia di Cuneo.Tutti questi classici vanno cucinati con conoscenza della tecnica, ma anche in modo moderno e per questo non mi stuferò mai di sponsorizzare la cottura espressa.

Per godere appieno della migliore materia prima, preservando tutto il gusto del prodotto, bisogna capire che non servono cotture infinite, come spesso invece si faceva in passato necessariamente perché si adoperavano stufe a legna.

I fornelli di oggi permettono un approccio diverso e occorre fare entrare questa consapevolezza nella testa di chi cucina. Uno scamone o un grande pezzo di carne non deve stare sul fuoco quattro ore ma al massimo mezz’ora.

E che dire della piovra? Di solito la si fa cuocere per ore e poi la si serve con olio, prezzemolo e limone, ma dopo una cottura così lunga è così morbida da perdere la sua consistenza.

È sbagliato far cuocere il coniglio per due ore e mezzo e lo ha insegnato Gualtiero Marchesi con il suo ragù di coniglio saltato in padella per due minuti: in questo caso godete veramente della materia prima che viene valorizzata al meglio e non rovinata.

Un cavallo di battaglia di Marchesi è sempre stato il piccione. È un altro classico della nostra cucina che merita attenzione e, se cucinato bene, il suo gusto di fegato risulta pulito al palato, più fine di quello di un paté. In Toscana trovate il piccione sulla tavola dei contadini, è impiegato nella bomba di riso alla piacentina ed è immancabile nell’alta gastronomia.

Abbiamo parlato di carni ma, anni fa, ho lavorato per Pietro Leemann, nel suo ristorante stellato Joia che è vegetariano. Consiglio la visita anche a chi ama la carne perché Leemann è un maestro in grado di fare capire come va preparata la verdura. Tratta l’indivia come tratteremmo noi un filetto o cucina una cipolla come faremmo noi con il piccione. Questo approccio alle verdure fa venire voglia di mangiarle e apre un mondo tutto nuovo sempre all’interno di una visione di cucina classica.

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