Il famoso “salto della quaglia” era già di moda ai tempi della Repubblica Sociale, bastava cambiare camicia al momento giusto come fece un certo Dario Fo (ho visto su internet la sua foto da fascista). Altro che “Mistero buffo”, tutto chiaro e c’è poco da ridere se questo è l’immacolato moralizzatore.
Enzo Bernasconi
Varese
C’è trasformismo e trasformazione, come sappiamo bene. La trasformazione avviene quando ci si accorge d’aver sbagliato, si cambia idea, si accetta di pagare un prezzo -talvolta elevato- a questo evolversi di un’idea, di un sentimentalismo, di un comportamento. La trasformazione è positiva, evita la marmoreità deleteria della coerenza nell’errore, favorisce il miglioramento della società. La trasformazione è quella che consente di mediare, di stringere compromessi virtuosi senza scadere in mediocri compromissioni. La trasformazione è guidata dalla sincerità, da un esercizio dell’esame di coscienza, dall’affermarsi dell’autocritica.
Il trasformismo è l’adeguarsi alle onde della convenienza, del calcolo, del profittamento. Avviene nella politica (un’epoca ottocentesca, dell’Italia unita da pochi anni, prese addirittura il nome dal fenomeno) e non solo nella politica. Gl’italiani ne han dato spesso prova. Forse perché in qualche modo costrettivi, a scopo di sopravvivenza, dalle dominazioni straniere; forse perché sono fatti (siamo fatti) così, e non c’è verso di cambiare una tale connotazione caratteriale. Lo consideriamo così normale, il trasformismo, da meravigliarci quando non si manifesta in chi penseremmo fosse naturale che si manifestasse. È un po’ quel che sta succedendo con il nuovo presidente del Consiglio, un tipo strano che ascolta tutti e poi va per la sua strada senza chiedere più niente a nessuno. Convinto che questo sia l’unico modo per rendere l’Italia un Paese, appunto, in trasformazione; e non renderlo più un Paese trasformista. Impresa temeraria se non disperata, a dar retta alla storia.
Max Lodi
© riproduzione riservata