– Non parla , 49 anni di Brebbia, arrestato venerdì scorso nell’abitazione di via Cadorna dove vive con la madre Mariuccia di 74 anni. L’uomo è comparso ieri davanti al gip di Varese per l’interrogatorio di garanzia. «Il mio assistito – ha brevemente spiegato il difensore – si è avvalso della facoltà di non rispondere». Il gip è arrivato al carcere dei Miogni alle 10, accolto da una folla di giornalisti. Il giudice per le indagini preliminari non ha rilasciato alcuna dichiarazione.Alle 10 ai Miogni è arrivata anche , il sostituto procuratore generale di Milano che nel 2013 ha avocato il fascicolo dell’omicidio di Lidia, consumato nella sera del 5 gennaio 1987.
Il cadavere ferito da 29 coltellate della giovane studentessa di giurisprudenza, scout di 20 anni, militante di Comunione e Liberazione è stato trovato la mattina del 7 gennaio 1987 nei boschi di Cittiglio. Binda non ha parlato. «Parliamo di migliaia di pagine componenti un fascicolo datato quasi 30 anni – ha detto Martelli – Il mio assistito aveva già dichiarato la sua estraneità ai fatti subito dopo l’arresto. Prematuro sarebbe stato rispondere oggi alle domande del gip, prima di aver studiato a fondo le carte». Alle 11 Giorgetti e Manfredda hanno lasciato il carcere. Ma non Martelli. Intorno alle 12 l’inspiegabile trattenersi del difensore con Binda iniziava a far circolare voci di altri possibili sviluppi. Mezzora dopo è apparso chiaro il perchè. Manfredda è tornata in carcere e ha a sua volta interrogato Binda. Perchè? Forse un tentativo di far sentire al presunto assassino tutta la pressione della situazione, nella speranza che questi potesse tradirsi. Di fatto ad oggi, con i vetrini che custodivano il Dna dello stupratore e assassino di Lidia raccolto 29 anni fa distrutti per ordine di un gip del tribunale di Varese e in assenza di altri elementi noti, Binda dovrebbe confessare per fornire la prova che spinga una corte d’assise a condannare al di là di ogni ragionevole dubbio. Binda ha continuato a tacere. «Si è avvalso della facoltà di non rispondere anche davanti al sostituto pg», ha detto Martelli uscito dal carcere intorno alle 15. Con Manfredda sono entrati ai Miogni anche due agenti della polizia scientifica della questura di Varese. A Binda è stato prelevato il Dna. Elemento di cui gli inquirenti erano già in possesso, visto che hanno escluso che sia di Binda il Dna ottenuto dal francobollo affrancato alla lettera anonima “In nome di un’amica”, che, recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987 – giorno delle esequie di Lidia – è stata attribuita a Binda con perizia grafologica e per gli inquirenti rappresenta la confessione del delitto.
Il nuovo prelievo ha permesso all’autorità giudiziaria di eseguire l’atto alla presenza del difensore. A quanto pare saranno eseguiti altri accertamenti. Martelli ad oggi non ha fatto alcuna istanza di scarcerazione e sul ricorso al tribunale del riesame “stiamo valutando”, ha brevemente detto l’avvocato. Su Binda gravano indizi di colpevolezza tali da spingere il gip a confezionare l’ordinanza di custodia in carcere. Ma è vero che, senza la prova del Dna, non esiste la classica pistola fumante. La perizia grafologica che gli attribuisce la lettera fatale è di parte e c’è la concreta possibilità che a processo un perito nominato dalla difesa smentisca l’attribuzione. Così come un perito della difesa confuterà l’interpretazione dell’accusa sulla lettera-confessione. Quello per Binda, in assenza di altri elementi, sarà in caso di rinvio a giudizio un processo del tutto indiziario.