Siamo “affetti” dalla vita e dal tempo. Ci avvinghiano, come l’edera al muro e come nessuno di noi ha voluto la malattia, altrettanto non ha chiesto o voluto la vita e il tempo. Noi poveri omuncoli ci attacchiamo disperatamente alla vita e la consideriamo il bene supremo, a costo di violentare la ragione. Forse qualche virus metafisico non solo ci ha infettato e trasmesso la vita, ma ci ha infuso anche l’infondata e inconscia convinzione che essa sia un valore, nascondendoci e ingannandoci sulla sua inutilità se non tossicità.
Guido Martinoli
Chissà se è davvero possibile costruire la casa della felicità. Ma se lo è, la stanza più grande risulterà – secondo l’efficace immagine dello scrittore francese Jules Renard – la sala d’attesa. Che è un modo d’essere insieme ottimisti e pessimisti. Per essere realisti.
Viviamo nella speranza, ci è connaturata, è la nostra compagna quotidiana, non sappiamo rimanerne senza neppure quando vorremmo disfarcene. Viene talvolta chiamata istinto di sopravvivenza, ma è qualcosa di più. Segna la nostra cifra umana, e per alcuni non solo umana: la speranza va oltre il confine terreno. Certo, non è facile sperare, talvolta è difficilissimo. Il contrario, disperare, appare più semplice. La religione suggerisce di non cedere a questa tentazione, configurandola come un peccato di mancata fede. Ma anche extrareligione arrivano dalla quotidianità della vita indicazioni talvolta sorprendenti a non separarsi dalla speranza.
Etty Illesum, ebrea olandese assassinata dai nazisti ad Auschwitz, pregava Dio di concederle la scrittura d’un piccolo verso al giorno: le sarebbe bastato per guardare al futuro con fiducia. Il piccolo verso simboleggia il poco di cui si nutre la speranza per non morire. Un poco che è poetico, e rappresenta la spiritualità, il bello, la luce.
Anche nel mezzo delle tenebre, siamo naturalmente portati a cercare la luce, perfino in evidente conflitto con la razionalità. Speriamo spesso d’emarginarla, se non di sconfiggerla, la razionalità.
Max Lodi
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