Gli Ossola sono una famiglia meravigliosa, un’istituzione nella Varese borghese del ’900. Negozio avviato in centro, rispettabilità della stirpe, talento dei singoli. I tre figli del signor diventarono tutti sportivi di grido: e detto Cicci nel calcio, nel basket. Franco fu un protagonista dell’epopea del : anzi, si può dire che tutto cominciò proprio da lui. Giocava attaccante nel Varese, in serie C: a neanche 18 anni era già due spanne sopra gli altri. Appena lo vide l’allenatore Janni – vecchio cuore granata – lo segnalò al presidente Novo, che si precipitò in città per comprarlo. Lo pagò 55mila lire, promise al papà di controllarlo e di farlo studiare.
Era l’estate del 1939 e Franco, già studente di liceo classico nel collegio dei salesiani a Como, sbarcò a Torino: stipendio di mille lire al mese, più vitto, alloggio e un’una tantum di 4.500 lire. Un sogno, più o meno. Gli altri fenomeni che avrebbero costituito una squadra leggendaria arrivarono dopo, quando già la guerra imperversava e giocare nel Toro significava anche figurare, se non esercitare, come dipendenti Fiat: ergo, evitare la temuta chiamata alle armi.
Ossola, attaccante veloce, estroso e tecnico, divenne subito un idolo del Filadelfia. Se aveva la palla al piede, levargliela era difficilissimo. Un’ala che dribblava, crossava e tirava: eclettismo, qualità e concretezza. I granata diventarono in breve una corazzata: primo scudetto nel ’43, con il mentore subentrato sulla panchina del cuore; poi quattro titoli di fila a guerra conclusa. , , , , era la filastrocca dell’attacco atomico, una sentenza per ogni avversario.
Anche fuori dal campo Franco s’era ambientato bene: aveva trovato l’amore di , incontrata in una latteria, e aveva aperto con Gabetto il bar Vittoria, che ben presto s’era trasformato nel ritrovo prediletto di calciatori e tifosi. Però Varese rimaneva sempre Varese: appena poteva tornava a casa, e quando non poteva chiamava a mezzogiorno in punto, e chiedeva ai familiari di accostare la cornetta alla finestra aperta di corso Roma, per fargli sentire i rintocchi del Bernascone.
Papà Gino al martedì esponeva nella vetrina della gioielleria foto e ritagli di giornale che raccontavano le avventure del suo Franco. I varesini erano orgogliosi di Ossola, ne seguivano le imprese tra radio e stampa. E tifavano Toro, come tanti italiani innamorati di quella squadra bella e imbattibile, ricercata anche dall’estero per amichevoli e tournée, ambasciatrice fantastica del Paese che voleva rinascere. Il Toro era pure traslocato in nazionale: di quella formidabile covata solo Franco Ossola non ebbe spazio in azzurro, e rimase un rimpianto, suo e dei suoi tifosi. I fratelli, oggi, conservano gelosamente una delle pochissime maglie color Savoia indossate dal primogenito di casa.
E quando, il 4 maggio 1949, si sparse la notizia della sciagura di , il negozio in centro divenne la stanza delle lacrime di un’intera città attonita, che aveva perso il suo figlio più famoso. Era morto da poco anche papà Gino, in un incidente stradale. Intitolare lo stadio di Masnago a Franco fu il minimo sindacale. L’epopea della famiglia più amata di Varese sarebbe continuata solo più avanti, quando i cuccioli si fossero fatti campioni.