Fuga da Saigon, solo i politici suonano i violini

Ecco un’immagine mentale efficace: l’Italia come Saigon appena prima della fuga degli americani. Tutti arraffavano quello che potevano e si scannavano per un posto negli elicotteri.
La fuga inizialmente era ordinata, i fuggiaschi avevano il tempo di imballare il bottino. Continuavano a partecipare a feste e ricevimenti come se tutto fosse normale, ma poi a mano a mano che i vietcong si avvicinavano e la situazione diventava insostenibile, la fuga si faceva caotica. Però nessuno voleva rinunciare a niente. I vietcong chi sono in questo paese?

Francesco Degni

I vietcong sono l’esercito della disillusione, della rabbia, della protesta.
L’esercito che non comprende l’atteggiamento incomprensibile della politica.
Che è in fuga non da Saigon, ma dalla realtà.
La politica che da sotto le macerie fumanti di questo disastroso epilogo della Seconda Repubblica tira fuori roba come il presidenzialismo, gli euro da stampare in proprio, le liste di partito da camuffare con le vesti di liste civiche, i regolamenti di conti interni, i recinti da aprire o chiudere per le primarie.
I destini del Paese rimangono secondari.
Neppure l’ultimo avvertimento, arrivato dalle elezioni amministrative, ha cambiato gli umori, il clima, le decisioni.
Doveva esserci, all’ombra del governo tecnico di Monti, un riformismo istituzionale efficace, concreto, proiettato nel futuro: un anno di tempo al professore per avviare il risanamento dei conti, poi via alla terza Repubblica con partiti rigenerati e pronti a riconquistare il loro fondamentale ruolo nella democrazia. Nulla di tutto questo.
Anzi, avanti come al solito.
Per esempio a difendere i parlamentari dalle inchieste giudiziarie o a procedere a spartizioni di nomine in importanti enti di controllo, naturalmente bene guardandosi dal prendere in considerazioni le referenze inviate da alcuni titolati competitori al ruolo.
Guai a rinunziare a qualcosa, guai a fare autocritica, guai a leggere Saigon sul cartello indicatore di Roma.

Max Lodi

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