– Era una Varese al quadrato quella di Gino Oprandi fotografo, scrutata attraverso le lenti del 35 millimetri Zeiss Tessar montato sulla Rolleiflex, macchina d’assalto dei reporter di una volta e dei paparazzi della dolce vita a cavallo della Vespa. Negativi 6×6, nitidi e incisi, adatti a buoni ingrandimenti e alla stampa a rotocalco, oggi testimoni di un mondo perduto, eppure non è trascorso più di mezzo secolo da quando il “Cavaliere” (lo era dal ’75) sempre in giacca, cravatta e borsalino, cercava materia per la cronaca e documentava i cambiamenti del tessuto urbano, repentini e quasi mai felici.Varese demoliva la sua storia e assieme alle vecchie case e ai quartieri se ne andava la poesia del vivere, con le vie e
le piazze abitate dalla gente, i negozi di artigiani e le drogherie profumate di spezie e mostarde, il mercato in piazza della Repubblica, le prime tavole calde e le gelaterie, i caffè dove bere l’“americano” la domenica mattina. Una città simile a quella che Pietro Germi descriveva nel “Ferroviere”, viva e spesso vivace, genuina e ancora animata dalla voglia di fare.Nato a Cerete Basso nella Bergamasca, nel 1927, il Gino aveva avuto un buon maestro, Alfredo Morbelli – figlio di Angelo, pittore di grande sensibilità sociale – che teneva studio in piazza XX Settembre, unico concessionario della leggendaria Leica, ma già all’inizio degli anni Sessanta si era messo in proprio, iniziando anche la collaborazione con “La Prealpina”, diversi enti e con l’ippodromo delle Bettole.
Allora la fotografia era anche artigianato, ore in camera oscura, acidi e smaltatrici, nuove pellicole e carte da testare, chilometri da percorrere a piedi o al massimo in taxi, per essere al posto giusto nel momento giusto.
Oprandi c’era sempre, e quelle fotografie quadrate sono lì a raccontare una città forse più ingenua ma certamente più amata dai suoi abitanti, dai politici e dagli imprenditori, anche negli errori, a volte terribili, come l’abbattimento del Teatro Sociale, la chiusura delle funicolari e la dismissione della rete tramviaria.
Varese era ancora un grande paese, con negozi antichi, tramandati di padre in figlio, alberghi nelle vie del centro, e soprattutto forti insediamenti industriali come il Calzaturificio di Varese, i mulini Marzoli Massari, la dolciaria Mera & Longhi, che mescolavano alla gente comune centinaia di operai, al lavoro in bicicletta o con vespe e lambrette, primo atto della rivoluzione nei trasporti culminata con l’utilitaria per tutti negli anni del boom economico.E poi le osterie, le piccole
trattorie con il gioco delle bocce – la più rinomata quella “del Ponte” gestita dal Natale – la fiaschetteria Toffano in via Garibaldi, con il magnifico bancone in mogano e alluminio e la monumentale macchina per il caffè lucida di ottoni, il caffè Leoni dove si gustava il “pezzo duro”, la panetteria Clerici, l’orologeria Baratelli e il Caretti delle scarpe per bambini nel palazzo poi demolito per far posto ai “grandi magazzini Coin e al supermercato Stella”.
Per i libri si andava da Pontiggia, con due anziane signore sedute alla cassa a sinistra entrando, la camera d’aria bucata della bicicletta la riparavano i ciclisti Bronzi e Cervini, il negozio dell’Aldo, in via Vittorio Veneto, era il paese dei Balocchi per noi bambini, con le macchinine Corgi Toys importate dall’Inghilterra, per i gelati non c’era che il bar Firenze in piazza Mercato, per i cappelli e le borse De Micheli, una cena squisita “prêt-à-manger” la garantiva Valenzasca. La radiolina a transistor per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto” si acquistava da Pinuccio Molteni, che la domenica correva alle Bettole sui purosangue della “Emmegi”, mentre il cugino Mario cresceva generazioni di musicisti in transito nel suo negozio di strumenti e spartiti più che centenario.
Per la Rollei di Gino Oprandi tutto ciò era routine, il senso di appartenenza alla città era anche il suo e ci teneva a mostrarlo attraverso gli scatti, alcuni dei quali memorabili e oggi preziosissimi: l’orto dei frati dell’ospedale “Filippo del Ponte” visto dal campanile di Giubiano, la “salle à manger” dell’Albergo Europa, pieno Liberty in pieno centro città, il Calzaturificio di Varese in una giornata di pioggia, l’uomo dei gelati Eldorado alla Schiranna, quando al lago si faceva il bagno.
E poi il concerto della banda in piazza Monte Grappa la domenica mattina, i carretti con l’asino parcheggiati in piazza della Repubblica, la costruzione della pista ciclistica al “Franco Ossola” e dei sottopassi in viale Milano, il palazzo del vecchio Albergo Ticino all’incrocio di via Cavour con via Vittorio Veneto.
Non sta a noi giudicare se Varese fosse più bella allora, di certo era più amata e rispettata, più pulita e sincera, e nei momenti di sconforto che ci prendono nel vederla oggi sporca e degradata, con negozi anonimi e globalizzati, piazze spopolate o mal frequentate, senza un teatro e luoghi adatti per una normale vita culturale, dimenticata la passione per la sua storia, gli scatti di Gino Oprandi sono il Coniglio Bianco di Alice e volentieri lo seguiamo.













