Il taxi lo sta portando all’aeroporto e a Londra piove: succede spesso da quelle parti, dicono. Beppe Sannino è seduto sul sedile posteriore e guarda avanti: verso la strada che gli si fa incontro, verso il domani, verso quello che sarà. In testa mille pensieri, tra le mani un biglietto aereo di ritorno: addio Inghilterra, io me ne vado.
Già, perché Sannino ha appena stupito il mondo: lasciando la panchina del Watford e una squadra seconda in classifica, dopo una vittoria per 4 a 2 contro l’Huddersfield, rinunciando a un bel mucchietto di soldi. Dimissioni: una parola che nel mondo del calcio suona come una bestemmia in chiesa. E a noi adesso viene in mente solo una domanda.
Perché Beppe Sannino è un allenatore diverso dagli altri, nel bene e nel male. E chi si è stupito della mia scelta significa che non mi conosce per niente.
Non sa, per esempio, che io una squadra la devo sentire. Io devo vedere la mia faccia in campo, qualcosa di me in ognuno dei miei giocatori.
No. Stavamo vivendo un momento fantastico, stavamo vincendo, la gente era entusiasta. Però mi mancava qualcosa.
In campo non c’ero: mai. In campo ci andava una squadra meravigliosa, ragazzi splendidi: ma non ci andava Sannino.
Per cultura, per mentalità: in Inghilterra si pensa a correre più forte degli altri, ma c’è poca voglia di pensare alla tattica. Per me invece una squadra dev’essere specchio dell’allenatore. Eravamo secondi a un punto dalla prima classificata, con quattro vittorie in cinque partite. Ma credetemi: sarei stato più felice se avessimo sempre perso, ma con la faccia di Sannino in campo.
Il sabato. Perché come vivono gli inglesi le partite, non le vive nessuno: sono avanti a noi anni luce. Se si riuscisse a fare un connubio tra le nostre conoscenze tattiche e la loro gioia di giocare a pallone verrebbe fuori il calcio perfetto.
Noi abbiamo gli allenatori più bravi del mondo, ma i problemi del nostro calcio urlano più forte delle nostre capacità tecniche. Loro hanno l’entusiasmo e la capacità di coinvolgere la gente, ma non hanno voglia di studiare.
Non capisco perché la gente faccia fatica a credere che io sono davvero diverso dagli altri. Che ho sempre pagato sulla mia pelle la mia voglia di girare a testa alta e di non scendere a compromessi. Ho rinunciato a una montagna di soldi solo perché non ero felice: e la gente non mi crede. Peccato, davvero.
Sistemerò le cose del trasloco e chiuderò gli occhi: per un po’, niente partite. E poi aspetterò: non è ancora arrivato il momento di andare in pensione.
Con le lacrime agli occhi, con un “ciao Beppe”. E nel comunicato stampa che ha annunciato il mio addio la società ha scritto che io e la mia famiglia saremo sempre di casa al Vicarage Road, lo stadio del Watford. Questa cosa mi ha fatto un piacere enorme.
Hanno capito che ero uno di loro, perché io non ho mai rinunciato a fare il Sannino. In campo facevo il matto, come ho sempre fatto anche qui: e gli inglesi andavano via di testa. Ma lo sapete che io sono l’unico allenatore ad aver subito un fallo da parte di un giocatore avversario? È successo due volte: la prima contro il Nottingham Forrest, la seconda nell’ultima partita con l’Huddersfield.
Io ero nella mia area tecnica e il giocatore scivolando fuori dal campo mi ha travolto. Facendo apposta, alzando la gamba, un vero e proprio tackle. Col Nottingham eravamo pure in diretta tv e l’hanno visto tutti: sono volato per aria e finito nel fango, in giacca e cravatta, e mi sono incazzato come una bestia. “Cosa fai – ho detto a chi mi aveva buttato giù – vuoi farmi fuori perché hai capito che con me la mia squadra gioca in dodici contro undici?”.
Semplice: forza Varese, sempre.
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La storia del Betti è il perfetto esempio di quello che in Italia non funziona. Perché abbiamo dei grandissimi allenatori e degli splendidi personaggi, ma ce ne accorgiamo sempre troppo tardi. E sempre per caso.
Se il Varese lo scorso anno si fosse salvato tranquillamente nessuno avrebbe mai pensato di fare quella mossa che poi si è rivelata decisiva. Nessuno avrebbe mai pensato di dare a Bettinelli la panchina del suo Varese. E lui sarebbe rimasto a casa, ad aspettare qualcosa che sapeva di meritare.
Di più: è l’uomo giusto al suo posto. È una persona intelligentissima, conosce il calcio e ama questa squadra e questa città: condizione imprescindibile per lavorare bene a Varese. Verrò a vederlo e non sarà una sensazione nuova: sono abituato a vederlo dalla tribuna, dopo tutte le volte che ha dovuto sostituirmi perché io venivo espulso e squalificato.
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