Il caso Genoa e l’incapacità della sconfitta

Il calcio non finisce di sorprenderci nei suoi aspetti negativi. Quello che è successo a Genova, con i giocatori rossoblù costretti a levarsi le maglie su richiesta dei tifosi perché stavano perdendo, è un fondo che non pensavo si riuscisse a toccare. D’accordo che i tifosi sono importanti e sostengono con la loro passione tutto il movimento calcistico, ma concedere a delle frange di condizionare in questo modo una partita, il calcio nel suo insieme e infine lo sport in generale, è la peggiore delle sconfitte. Non so se rimediabile.

Paolo di Benedetto

La sconfitta, appunto. Questione degli ultrà a parte, ci manca la cultura della sconfitta.
L’autoritaria imposizione ai giocatori di abdicare alla loro dignità di persone, prima che a ogni altro valore o diritto, ha origini lontane. I tifosi, soprattutto i tifosi di più intensa fede, difficilmente sanno perdere. Ma ad insegnargli a non saper perdere sono i dirigenti, gli allenatori, i giocatori. Quelli che si lagnano a ogni partita, e discutono per una settimana intera su presunti torti, angherie, complotti eccetera.
L’incubazione del male viene da lì. La cultura della sconfitta non ce l’ha chi per primo dovrebbe averla. Praticarla. Diffonderla. Il resto sopraggiunge a cascata, con il vigore (la violenza) dell’acqua d’una cascata. Le società ogni tanto prendono le distanze, proprio quando non ne possono fare a meno, dalle frange meno governabili del tifo.
Ma nella realtà se ne servono. L’agitare accuse di favori elargiti a tizio e caio altro non sono che assist ai facinorosi perché vadano a segnare il gol dell’esasperazione passionale. Se poi chi, sulle gradinate più bollenti, si fa un’idea sbagliata del suo ruolo e potere, com’è possibile meravigliarsi? O meglio: è possibilissimo, e di fatti accade a ogni imbarazzante incidente, ma si tratta di un esercizio d’ipocrisia e d’infingimento.
Le grane non vengono procurate ai club da chi vi è formalmente estraneo, ma sono i club a procurarsele con chi gli è sostanzialmente affine.

Max Lodi

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