Cara Provincia, scrivo di getto ancora turbato dalla vicenda di Samia, la giovane atleta somala morta su un barcone nel canale di Sicilia, al largo delle coste maltesi. La tragedia risale a otto mesi fa e per una fortuita serie di circostanze è stata, oggi, raccontata dai media internazionali.
A Pechino era arrivata ultima ma aveva nel cuore il sogno di partecipare anche alle Olimpiadi di Londra. È morta come uno dei tanti clandestini, invisibili agli occhi di noi occidentali. Sarebbe bello che la storia di Samia non venisse dimenticata nel giro di qualche giorno come purtroppo temo che possa accadere. E sarebbe bello che lo sport, quello del business, si adoperasse per ricordarla. Sono un idealista?
Roberto Toni
Castellanza
Caro Toni,
non nutrirei così tante aspettative nei confronti di uno sport di vertice e di business che, a Londra, ha fatto fatica a ricordare la strage degli israeliani a Monaco ’72, relegata in un angolino perché lo spettacolo deve andare avanti.
La “fortuita serie di circostanze” che lei evoca poteva verificarsi anche un mese fa, alla vigilia o durante i Giochi. Non sono così persuaso che la tempistica sia stata casuale: come se niente dovesse bucare la presunta bolla felice a cinque cerchi, tutta sorrisi e plastica. Diversa è la sensibilità degli sportivi, intesi come atleti e come spettatori. Gli stadi sono, sì, luoghi di nefandezze, ma anche di grandissime empatie sociali: il mondo si accorge delle tragedie della porta accanto se approdano sui campi di gara. È responsabilità di chi gareggia – magari venendo dalla stessa Africa, terra di campioni che attraverso lo sport sfuggono alla miseria e alle guerre civili – lanciare messaggi di questo tipo, se necessario scalfendo l’esasperata filosofia politically correct delle istituzioni.
Samia che muore come tanti disperati sconosciuti è una notizia: perché diventi monito serve altro. Serve l’impegno degli atleti, che, nonostante tutto, rimangono la parte migliore dello sport diventato show e business.
Stefano Affolti
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