Le nostre strade ricordano i personaggi che hanno avuto un ruolo fondamentale, da protagonisti, nella vita della nostra città e della nostra Patria. In occasione del 25 Aprile, ripercorriamo, attraverso i post del giornalista Fausto Bonoldi, operoso ed instancabile ricercatore de La Varese Nascosta, le vie intitolate agli eroi della Resistenza.
Un vicolo con il fondo di acciottolato, nel cuore antico di Sant’Ambrogio, ricorda Enrico Bonfanti, primo sindaco di Varese dopo il 25 Aprile 1945. Nominato dal Comitato nazionale di liberazione Alta Italia, Bonfanti, militante comunista di professione verniciatore, restò in carica fino al 25 marzo 1946, quando gli subentrò il socialista Luigi Cova. Nato a Varese nel 1901, il futuro sindaco fu condannato nel 1928 per attività antifascista a cinque anni di carcere, scontati i quali,
emigrò in Svizzera. Combattente in Spagna nelle Brigate internazionali che si battevano contro Francisco Franco, fu ferito, riparò in Francia dove, dopo un periodo di internamento, fu consegnato alle autorità italiane che lo confinarono a Ventotene. Arruolatosi nelle file della Resistenza alla caduta di Mussolini, fu combattente nella 121ma Brigata “Walter Marcobi”. Si spense nella sua Varese nel 1964. Nella foto il sindaco Bonfanti, a sinistra, è ritratto con il colonnello e avvocato Charles Poletti, governatore della Lombardia liberata e, in seguito, governatore democratico dello Stato di New York. «Se mi è consentito un ricordo personale – scrive Bonoldi – il colonnello Poletti, varesino da parte di madre, ebbe al suo fianco come ufficiale di collegamento del Regio Esercito, durante l’intera guerra di liberazione, il maggiore d’artiglieria Gisleno Bonoldi, mio nonno, ufficiale gentiluomo e grande patriota».
La via principale del centro storico di Bizzozero onora e perpetua la memoria del tenente degli Alpini Carletto Ferrari, protagonista della Resistenza, ucciso a colpi di mitra, il 10 gennaio del 1945, in via Hermada, a due passi dal carcere dei Miogni, dove stava per essere rinchiuso. Il comandante partigiano, nato il 16 marzo del 1912 da una famiglia borghese di Bizzozero, che si distinse anche per l’impegno profuso per sottrarre alla cattura e ai campi di sterminio numerosi ebrei, da lui aiutati a riparare in Svizzera, diresse uno dei gruppi della 121esima Brigata Garibaldi “Walter Marcobi” ma fu costretto a lasciare il fronte varesino e a continuare la lotta nel Comasco, tra Campione e la Val d’Intelvi, dopo aver preso parte, nella sua Bizzozero, a uno scontro a fuoco in cui era rimasto ucciso un vicebrigadiere della Guardia nazionale repubblicana. Catturato il 10 gennaio del 1945 in provincia di Como dalla Milizia confinaria e consegnato ad agenti dell’Ufficio politico investigativo di Varese, fu sottoposto a un duro interrogatorio e ucciso, come detto, durante il trasferimento in carcere. Il suo sacrificio è commemorato ogni anno dalla comunità bizzozerese.
La via che da piazza Repubblica conduce in via Cavour è intitolata a un eroe della Resistenza in mare: il capitano di vascello Carlo Avegno, nato nella vicina Meina il 6 giugno del 1900, cadde in combattimento il 13 settembre del 1943 mentre, con i suoi marinai, cercava di impedire l’occupazione tedesca della base navale della Maddalena, di cui aveva assunto il comando nel giugno precedente. Il suo sacrificio fu riconosciuto con la concessione di una Medaglia d’oro alla memoria, che si aggiunse alla Medaglia d’argento, alle due Medaglie di bronzo e alle due Croci di guerra ottenute dal comandante Avegno nelle campagne a cui aveva preso parte. Allievo dell’Accademia navale di Livorno dal 30 settembre 1913, il 1° ottobre 1917 conseguì la nomina a guardiamarina, grado con il quale partecipò all’ultimo anno della Prima guerra mondiale. Comandante della stessa Accademia navale, dopo aver preso parte alla campagna etiopica, dal 1937 al 1939 fu ufficiale del Comando superiore per l’Africa Orientale e quindi, fino al maggio del 1943, capo di stato maggiore del Comando della Marina di Bengasi e di Tripoli. Cinque giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, pagò con la vita la fedeltà alla Patria occupata dall’ex alleato germanico.
Ha legato il suo nome alla prima battaglia della lotta di Liberazione, quella del San Martino, combattuta da un ridotto numero di militari e di partigiani contro duemila soldati della Wehrmacht appoggiati dall’artiglieria e dall’aviazione. Al colonnello Carlo Croce, nato a Milano il 15 aprile del 1892, è intitolata la via del centro storico che collega corso Matteotti e piazza Giovine Italia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’alto ufficiale formò nel Luinese con un manipolo di soldati il Gruppo militare “Cinque Giornate” Monte San Martino di Vallalta Varese, deciso a difendere l’onore dell’Esercito italiano nel Varesotto occupato dai tedeschi. Il 14 novembre la Wehrmacht, dopo aver isolato la zona del San Martino, lanciò un massiccio attacco alle posizioni tenute dai centosettanta uomini del colonnello Croce i quali, dopo essere riusciti a tener testa agli attaccanti, infliggendo loro gravi predite, dovettero ripiegare oltreconfine. Nel combattimento i partigiani ebbero solo due caduti ma numerosi furono i patrioti catturati e fucilati dopo che erano rimasti a coprire la ritirata dei compagni. Dopo la battaglia i tedeschi distrussero con l’esplosivo l’oratorio romanico, monumento nazionale, posto in cima al monte, poi ricostruito nel dopoguerra. Rientrato nel territorio della Repubblica sociale dalla Svizzera, Croce fu catturato all’Alpe Painale nei pressi di Sondrio. Morì il 24 luglio del 1944 all’ospedale di Bergamo per le torture inflittegli dalle SS durante gli interrogatori. Per il suo sacrificio fu insignito della Medaglia d’oro alla memoria.
“A Nuccia Casula che per l’avvento della nuova Italia offrì i suoi giovani anni”. Con questa scritta, posta sulla facciata di San Vittore, e una grande partecipazione popolare Varese diede l’estremo saluto, nel giugno del 1946, in basilica, alla giovane partigiana caduta nell’ultimo inverno di guerra a Prato Barbieri, sull’Appennino piacentino. Nuccia Casula, nata a Varese il 19 giugno del 1921, allieva del liceo ginnasio “Cairoli”, fin dalla metà di settembre del 1943 affiancò il padre Marcello, ufficiale dell’Esercito, e il fratello Diego nell’attività di sostegno alla formazione del colonnello Croce, che si era attestata sul monte San Martino. Quando, a metà di novembre, il Gruppo militare “Cinque Giornate” dovette capitolare di fronte alle soverchianti forze tedesche, Nuccia continuò la sua attività partigiana che consisteva nella raccolta di informazioni sui piani delle SS e delle brigate nere. Nel 1944, però , la famiglia Casula si trasferì a Prato Barbieri, in una casa che divenne il comando di una formazione partigiana piacentina. Nuccia si occupava di tenere i contatti tra i gruppi di combattenti, di portare ordini, raccogliere informazioni e procurare indumenti. Il giorno in cui il colonnello Casula e la sua famiglia furono circondati dai tedeschi, e i partigiani ingaggiarono battaglia per liberarli, Nuccia fu colpita a morte da un colpo di fucile in fronte. La salma fu sepolta dalla madre sotto la neve e poi inumata da un sacerdote in un cimitero dell’Appennino fino a quando, nel giugno del 1946, le spoglie mortali di Nuccia Casula furono accolte dalla città di Varese. All’eroina sono dedicate la via che costeggia la stazione e la sede ferroviaria delle Nord e, dal 2013, in coppia con l’eroe risorgimentale Francesco Daverio, l’istituto d’istruzione superiore in cui si sono fusi l’Istituto tecnico per ragionieri e geometri e l’Itpa.
Il più anziano di loro, Evaristo Trentini, aveva 23 anni; gli altri due, Elvio Copelli e Luigi Ghiringhelli, erano appena ventenni. Oggi li definiremmo ragazzi. Morirono insieme, fucilati sul prato antistante l’ippodromo delle Bettole, il 7 ottobre del 1944, in quel tragico “Ottobre di sangue varesino” che vide cadere sotto il fuoco fascista 16 partigiani. I tre giovani uccisi alle Bettole erano stati sorpresi nel sonno, poche ore prima, nel rifugio della banda comandata dal capitano dell’Aeronautica Giacinto Lazzarini, la cascina della Gera a Voldomino.
Il luogo in cui si trovavano i partigiani del Luinese era stato rivelato sotto tortura da un loro compagno catturato dalla Guardia nazionale repubblicana, messa sulle sue tracce da una precedente delazione. Alle 7.30 di quel 7 ottobre, diciotto partigiani furono sorpresi nel sonno da due compagnie della Scuola allievi ufficiali della Gnr di Varese, fra cui la quarta, detta “compagnia del terrore”, sotto il comando dell’Ufficio della polizia investigativa. La cascina dei coniugi Garibaldi fu data alle fiamme, l’annessa casa colonica razziata di mobili, suppellettili, animali e generi alimentari. I patrioti catturati furono fucilati in località diverse: alla Gera caddero Giacomo Albertoli, Carlo Tapella, Alfredo Carignani e Piero Stalivieri; al cimitero di Brissago Valtravaglia furono passati per le armi Giampiero Albertoli, Dante Girani, Flavio Fornara, Luigi Perazzoli e Sergio Lozio; Elvio Copelli, nato proprio a Voldomino il 15 luglio del 1924, Luigi Ghiringhelli, nato a Luino il 12 febbraio dello stesso anno, e Evaristo Trentini, nato a Clivio il 12 luglio del 1921 furono trasferiti per l’esecuzione della condanna a morte a Varese, con l’intenzione di inviare un monito ai varesini vicini al movimento partigiano. Con lo stesso scopo, i cadaveri dei tre giovani furono lasciati per tre giorni sul prato antistante le Bettole sotto la pioggia. Il momento della fucilazione è fissato nel commovente racconto di don Giuseppe Tornatore, che stava tornando dal centro di Varese all’Istituto Padre Beccaro (oggi Centro Gulliver), di cui era rettore.
Il coraggioso sacerdote ottenne il permesso di dare l’ultimo conforto umano e religioso ai tre condannati a morte. A Elvio Copelli è intitolata la via che da Casbeno conduce alla Motta, tratto del cosiddetto “ring”; le vie intitolate a Luigi Ghiringhelli ed Evaristo Trentini costeggiano sui due lati il palazzo della Questura.
La sua Varese gli ha intitolato quel corso Verbano che, ampliato con lo sventramento del centro storico negli Anni Trenta, era stato dedicato al gerarca aviatore Italo Balbo. Via Walter Marcobi, che collega piazza Monte Grappa all’incrocio con le vie Sacco, Bernascone e Veratti, onora la memoria del comandante della 121ma Brigata Garibaldi “Gastone Sozzi”, morto in seguito a un agguato della polizia politica della Rsi il 5 ottobre del 1944, nei boschi tra Capolago e Loreto. Marcobi, nato a Varese il 28 gennaio del 1914, era un operaio che aveva partecipato alla guerra d’Etiopia ma che era riuscito a evitare, per una malattia, il reclutamento nelle forze armate della Repubblica di Mussolini. Dopo la caduta del duce, iscrittosi al Partito comunista, fu uno dei più attivi organizzatori della Resistenza a Varese, meritandosi il comando militare della brigata impegnata nel recupero di armi, nel sabotaggio e nell’attività propagandistica. L’agguato al capo partigiano fu reso possibile dalle rivelazioni di un compagno di lotta di Marcobi, Gianfranco Corradi, il quale, arrestato il 4 ottobre, confessò sotto tortura il luogo, Capolago, in cui, il giorno dopo, avrebbero potuto sorprendere il comandante della brigata. Poco dopo le 8 del 5 ottobre, partirono in abiti borghesi su una “Topolino” da “Villa Triste” (Villa Dansi) quattro uomini dell’Ufficio della polizia investigativa guidati dal comandante Giovanni Battista Triulzi. Marcobi, colto di sorpresa e perquisito, tentò di allontanarsi. Giovanni Seveso e Carletto Malnati fecero fuoco senza riuscire a colpire il partigiano, che fu però raggiunto da una raffica di mitra sparata da Baiardo Frati. Marcobi non morì subito ma fu trovato dissanguato all’alba del giorno dopo in via dei Boderi. La sua scomparsa, unita alla cattura e all’uccisione di altri partigiani, inferse un duro colpo alla brigata varesina, la cui guida fu assunta da Giuseppe “Claudio” Macchi, già vice di Walter Marcobi, al quale la formazione partigiana fu intitolata. Sugli oscuri retroscena della vicenda, tenuta in ombra dal mondo partigiano per lungo tempo, ha fatto piena luce Franco Giannantoni con il suo libro “Comandante “Remo” arrendetevi”, pubblicato nel 2004 da Arterigere-Essezeta edizioni. Gianfranco Corradi fu graziato dal tribunale partigiano “per aver agito in stato di necessità”.
Varesino per parte di moglie, Leopoldo “Poldo” Gasparotto, Medaglia d’oro al valor militare, dà il nome a una delle più importanti e trafficate vie d’accesso e d’uscita di Varese, parallela alla “bretella” autostradale. Entrato nella storia e nella toponomastica per la tragica morte, per mano delle SS, nel campo di Fossoli di Carpi, Gasparotto non fu solo un inflessibile antifascista di fede repubblicana ma anche un grande amante della montagna. Scalatore collezionista di prime ascensioni (gli è stata dedicata una via sul Monte Rosa), fu esploratore nel Caucaso e in Groenlandia, accademico del Club alpino italiano e docente alla scuola militare di alpinismo.
Nato a Milano il 30 dicembre 1902, sposato dal 1935 con la varesina Nuccia Colombo, con il padre Luigi, come lui avvocato, ministro negli ultimi governi prefascisti e nei primi dopo la Liberazione, tentò di organizzare, dopo l’8 settembre 1943, la difesa di Milano contro l’occupazione nazista ma non ottenne la collaborazione del comando militare di piazza.
Dopo aver messo al sicuro in Svizzera la consorte in attesa e il loro primogenito Pierluigi, Gasparotto diede vita, sui monti della Lombardia, alle prime formazioni militari di “Giustizia e Libertà” di cui assunse il comando, in collaborazione con il futuro presidente del Consiglio Ferruccio Parri.
Arrestato a Milano l’11 dicembre 1943, torturato a San Vittore e a Verona, fu inviato al campo di concentramento di Fossoli, campo di transito verso i lager nazisti, da dove il 21 giugno del 1944 fu prelevato e ucciso dalle SS.
Pressoché contemporaneamente, la signora Nuccia, che in Svizzera aveva dato alla luce il secondogenito Giuliano, tornò clandestinamente nel territorio della Rsi per partecipare alla Resistenza.