«Avere un nome e un cognome non risolverà le cose. Non vogliamo un colpevole a tutti i costi. Vogliamo arrivare al termine di un percorso che ci porti all’intera verità». racconta così l’ultimo anno. Il 7 gennaio di 28 anni fa il cadavere di sua sorella Lidia veniva ritrovato nei boschi di Cittiglio.
Quell’omicidio, la morte violenta della giovane scout dalla sguardo limpido, è ancora una ferita aperta per Varese. «L’ultimo anno ci ha dato speranza – dice Alberto – Siamo passati dal niente all’ottenere elementi che forse potranno portarci a quella verità di cui parlavo prima».
«È un percorso, il nostro, che ci ha visto metterci in gioco di nuovo. Prima c’era un muro; oggi abbiamo trovato nel sostituto procuratore generale di Milano , un magistrato che vuole a tutti i costi capire cosa sia accaduto 28 anni fa».
Manfredda ha di fatto indagato per l’omicidio di Lidia Macchi.
Una svolta dopo 27 anni di silenzio. Anche se non sarà facile: «Ci ha lasciati letteralmente senza parole scoprire certi particolari della vicenda giudiziaria».
Alberto Macchi si riferisce alla distruzione autorizzata dall’allora gip di Varese, di numerosi reperti importanti relativi all’omicidio di . Reperti andati perduti per sempre 14 anni fa.
«Sconcertante – spiega Alberto – Anche irrispettoso. Irrispettoso non soltanto nei confronti della nostra famiglia; di Lidia, della sua vita. Un fatto irrispettoso anche nei confronti della giustizia stessa. Irrispettoso anche nei confronti di eventuali indagati».
«Come si potrà accusarli senza avere a disposizione tutti gli elementi necessari? Tu mi accusi ma ti mancano moltissime prove? Questo potrebbe dire un indagato». Macchi non si ferma al comprensibile sconcerto a fronte dei fatti. «Io non sono un avvocato – spiega – Ma il nostro avvocato, , che ringrazio per la tenacia che sta dimostrando, sostiene che quanto accaduto, che la distruzione di questi reperti, non solo è irrispettosa, ma è anche illegale. E allora io credo debba esserci una seria e profonda verifica di quanto accaduto. Se un illecito è stato commesso, una volta accertato, vi saranno anche delle responsabilità»
Ciò che sorprende ogni volta che si parla con Alberto Macchi è la sua pacatezza. E la forza della sua fede, della fede di questa famiglia. «La fede ti consente di affrontare prove enormi – spiega Macchi – Di comprendere che questo dolore fa parte di un percorso in grado di portare alla felicità. Un percorso che nel dolore della morte di Lidia ci ha permesso di trovare l’amore di tanti amici; la vicinanza di tantissime persone».
Non c’è rabbia nelle parole di Macchi: «Non è facile – aggiunge – Ogni giorno si combatte contro la tentazione di cedere al rancore. Io vedo chi con rabbia chiede l’ergastolo. Lo vedo, ma non cedo. E soltanto la fede ti dà questa forza».
Macchi chiude un cerchio che batte la morte citando Papa Francesco: «Il Papa ha recentemente dichiarato di non credere nell’ergastolo – spiega Alberto – Condivido questa affermazione. Non farlo significherebbe non avere speranza che un uomo possa cambiare. Che un uomo possa riabilitarsi. E io a questa speranza non rinuncio».