Non è un terreno neutro la montagna. Non è uno sfondo per selfie o una via di fuga improvvisata dalle città afose. È un ambiente potente, fragile e severo. Un luogo che dà molto, ma che non perdona l’improvvisazione. Lo dimostrano i numeri drammatici di quest’estate: 83 morti e 5 dispersi in un solo mese, dal 21 giugno al 23 luglio. Praticamente quasi tre vittime al giorno. A lanciare l’allarme è Maurizio Dellantonio, presidente del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS): «In quarant’anni non avevo mai visto nulla del genere. Siamo oltre ogni soglia tollerabile».
A crescere non sono solo le tragedie, ma anche la superficialità. Sentieri pieni, rifugi presi d’assalto, persone impreparate che si avventurano senza attrezzatura, senza consapevolezza, senza rispetto. Il 60% delle vittime sono semplici escursionisti. Gli altri sono alpinisti, ciclisti, parapendisti, spesso senza una reale valutazione dei propri limiti.
Dellantonio racconta episodi al limite dell’incredibile. Come il giovane cuoco che ha tentato una vetta di 3.600 metri in scarpe da ginnastica, partendo alle 22 dopo il turno in cucina. È stato soccorso a 3.100 metri: stava congelando. «Sempre più spesso – denuncia – ci troviamo a salvare persone che nemmeno capiscono dove si trovano. Alcuni non portano nemmeno un guscio antipioggia. La montagna viene trattata come un parco giochi».
Il problema è culturale. Social network e viralità visiva spingono molti a emulare imprese altrui, senza capire che dietro una foto sulla vetta c’è preparazione, allenamento, esperienza. «Sembra che ammettere di non essere pronti sia motivo di vergogna. E allora ci si arrampica su una ferrata con un bambino in braccio, senza imbrago. È già successo», racconta Dellantonio.
Oltre al dolore, c’è anche un peso operativo enorme: i soccorritori intervengono fino a otto volte al giorno, in condizioni spesso estreme. E a fronte di costi significativi (fino a 1.000 euro per un salvataggio), molti si rifiutano di pagare anche quando il soccorso ha evitato il peggio. In Trentino e in Veneto sono previste tariffe per chi viene recuperato illeso: eppure, la consapevolezza è bassa.
«Non ci stiamo lamentando – chiarisce il presidente del CNSAS – ma chiediamo un cambio di passo. Serve educazione alla montagna, senso del limite, e soprattutto rispetto. La libertà di andare in quota non significa fare come si vuole. Esistono regole non scritte, fatte di prudenza, preparazione e umiltà».
Anche strumenti semplici possono fare la differenza: uno zaino ben preparato, una mantella, una scorta d’acqua, un cellulare carico con l’app GeoResQ attiva. Ma la vera protezione resta sempre la responsabilità individuale.
E per chi vuole vivere davvero la montagna, c’è un principio da tenere a mente: non è la vetta che conta, ma il modo in cui ci si arriva. E se si torna a casa.