La vita dell’alpino tra fatiche e sogni

La licenza a lungo desiderata gli era stata concessa. Dieci di premio e cinque di ordinaria. A partire dal quindici agosto. Se l’era guadagnata,gli aveva detto il Capo di Stato Maggiore di Brigata. In effetti lui non ci aveva pensato al fatto di essersela guadagnata. Perché non aveva mai pensato di poter fare la naia se non negli Alpini. E una volta giurato dopo il periodo di addestramento alla Caserma Rossi di Merano e destinato ad un autoreparto si era così avvilito di quella destinazione, da imporsi di fuggire da li. Dove lo aveva confinato il fatto di essere laureato e una laureato negli anni settanta era un potenziale sovversivo da tenere lontano dai reparti operativi.

Meglio destinarlo insieme ad altri laureati, ad un reparto logistico, senza fissa dimora, caricare e scaricare merci, armi e truppe un giorno su un alpe, l’altro in città. Per via di quella scelta la caserma Bosin a Merano era diventata un tink tank di intelligenze nei campi più disparati dalla fisica, all’economia, dalle lettere alla matematica. Tutte costrette a riparare camion e a condurli qua è la per le valli altoatesine. Una sorta di confino che stava stretto a tutti ma particolarmente a lui. Così quando venne l’occasione scappò.

E l’occasione venne quando il capitano Fontana venne a reclutare alpini disposti a gareggiare nei giochi invernali tra brigate alpine. Lui si fece avanti subito. E si meritò allora le caserme più innominabili e più dure, e le valli più fredde e inospitali, e gli allenamenti più duri e massacranti. Si meritò di perdere le unghie dei piedi, di fracassarsi un ginocchio, di congelarsi un orecchio,di dormire fra i muli. Di sputare sangue come predicava in mezzo alla tormenta il sergente De Sole «dovete sputare sangue,rammolliti».

E quando il girone infernale delle Gista era stato tutto girato, bastò una settimana di fureria per darsi ancora alla fuga.Era il tenente Caneppele che gli proponeva di far parte della squadra di soccorso delle manovre invernali. Fu subito un altro sì.E allora si meritò di dormire all’addiaccio a venti sotto zero, di salire nelle prime luci dell’alba con le pelli di foca la Punta Presena o il passo del Madriccio, dopo avere ingollato cognac dalle bustine di plastica per scaldarsi e guardare insieme ai suoi compagni di squadra, pieni di sonno e di fatica, i reparti scollinare al sicuro e poi via, veloci verso un nuovo rifugio una nuova salita al buio per nuovi risvegli all’alba e nuove maledette tribolazioni e fatiche. Senza tregua, senza scampo.

D’altro canto era così che era la vita da alpino. Che cosa erano poi i sacrifici e le tribolazioni sue a confronto di quelle di suo padre internato in Germania per più di due anni e dei suoi amici, Mario Negri lo scultore, Leone Pancaldi il pittore ,Luigi Carluccio il critico d’arte: tutti alpini, tutti condannati alla fame e agli stenti della prigionia nazista. Cosa erano le sue piccole ferite al confronto di quelle di un altro amico di casa, Mario Rigoni Stern.Che aveva combattuto in Grecia, fatto la ritirata di Russia e a concludere il suo calvario ,il campo di concentramento in Germania.

Fatiche e sofferenze immense che si erano attaccate alla sua pelle e erano entrate nel suo cuore insieme alle isbe, al gelo, alla morte, alla neve, al freddo, al cantare delle mitragliatrici verso la via di casa del Sergente della Neve, letto e riletto mille volte. Non gli pareva di aver fatto che quello che ci si aspettava da lui è che gli era stato indicato senza detti,col silenzio angosciato del cuore dei sopravvissuti che aveva conosciuto e con cui era cresciuto, che stavano persino dentro casa.

Quella licenza non era un premio ma un accidente della naia che era fatta di branda e fatiche, di corvée e di congedi.Un po’ come la vita. Che può concederti qualche paradiso fugace che appunto non è il definitivo, in quello bisogna credere. Così scese sulla sua cinquecento azzurrina la Valle dell’Adige in forma smagliante, quando sembra un incavo splendente di verdi in un vapore celeste, traversò la pianura e la serra d’Ivrea gli indicò la strada verso il Monte Bianco, più aspra, più dura di quella delle alpi appena lasciate,che gli apparve come da quando era bambino dietro una svolta tra La Salle e Morgex: ed era sempre un ohhh di stupore interiore.

Arrivò a casa. Battè all’uscio e gli si fece incontro suo padre. Che non si perse in convenevoli. Mentre vuotava la borsa nella sua cameretta rivestita di tavole di larice antico, gli disse che l’indomani alcuni amici salivano il Gran Paradiso. Voleva salire anche lui? Quando suo padre parlava così era una proposta che dentro di lui suonava come un ordine. Perché ogni aspettativa paterna era un ordine. Nel caso, suo figlio alpino aveva fatto qualcosina quell’anno,

ma non abbastanza. Doveva almeno salire un 4000. Il compito assegnatogli non finiva lì. Della compagnia che avrebbe salito la montagna fatta per lo più di sconosciuti avrebbe fatto parte anche Ni. Ni era una donna bellissima, di una bellezza eterea, un viso dai tratti regolari dall’incarnato bianco come il latte che emanava un’aura di fragilità assoluta, dominato da due occhi scuri e inquietanti e una figura da scricciolo dalle proporzioni perfette. Doveva portare sulla montagna non solo sé stesso ma anche quell’amica che poco o nulla sembrava spartire con le asprezze montane.

Ovviamente rispose sì, come sempre. Fece uno zaino leggerissimo, secondo i dettami famigliari, afferrò la piccozza, venti metri di corda, i ramponi. E si trovò senza avere il tempo di pensarci, d’altro canto nella vita bisogna sputare sangue, su per i tornanti che superano i bastioni rocciosi che danno al Rifugio Vittorio Emanuele II. Era a una serata leggera di luce e di vento, quando gli pareva di essere uno stambecco tra gli stambecchi e ad ogni volta tirava un lungo respiro e guardava le cime che lo attendevano con rispetto misto a venerazione e gli sembrava seguendo il filo del vento di sentire lontano il sale del mare.

La medesima venerazione che provava per Ni, che saliva come una gazzella senza che un filo di sudore le rigasse il viso. Arrivarono al rifugio e gli fu assegnata una camera con una cuccetta da condividere con la sua compagna d’avventura. Tra i tormenti della salita c’era anche quello. Si comportò come il gentiluomo che gli era stato insegnato di dover essere con qualche imbarazzo dovuto all’angustia degli spazi da condividere con quella donna bellissima che doveva apprestarsi, dopo una cena frugale, alla notte.

La sveglia suonò alle tre. Consumarono un caffellatte rancido insieme a pane raffermo. Indossarono le frontali e cominciò saltando sugli enormi sassi della morena la salita. Sembravano strane lucciole impazzite nella notte. Arrivò il ghiaccio e fu il tempo dei ramponi. Ni aveva un’attrezzatura improbabile. Aveva freddo e gli prestò la sua giacca a vento. I suoi ramponi erano legati alle scarpe da improbabili fasce che ogni cento metri venivano perse e che lui provvido provvedeva a riavvolgere.Venne l’alba e con lei la percezione improvvisa e straniante dell’altezza guadagnata ,tutte le montagne intorno si facevano piccole , e della vastità del luogo e della consapevolezza della propria fragilità.

Ni a dispetto della sua apparente inattitudine alle altezze arrivò sulla vetta fresca come una rosa dietro a lui che sulla cresta sommitale la teneva legata a sé come se dovesse reggerla per la vita. Erano in alto,più in alto di tutto e da quell’alto si provava la vertigine della conquista della cima, non del vuoto. Quella vertigine che tornato di corsa a perdifiato giù per il ghiacciaio presto si tramutò, volta che Ni gli parve finalmente al sicuro, mentre danzava di masso in masso, sfinimento, vuoto e nausea. Guadagnò il rifugio ripetendosi come Giuanì al sergente della neve “Sergent magiu ghe rivarem a baita?” Si ripeté la domanda nella sua camera del Verrand mentre sbolliva la fatica con una bella febbre terzana. Ghe rivarem a baita? Suo padre si affaccio ’ sull’uscio senza dargli il tempo di darsi una risposta. «Domani si va al bivacco Gervasutti , Sergio Favre ci aspetta a Lavachey alle sei».

Sentì una improvvisa voglia di caserma.D’altro canto che cosa era la vita se non una naia?

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