Il tubo catodico l’altra sera ci ha consegnato l’immagine di un uomo sudato, la barba selvaggia e un sorriso più lungo del ponte della Libertà, quello che collega il centro storico di Venezia con la terra ferma. Passano gli anni, ma le conquiste profumano sempre: il “vecchio” Charlie ha messo in riga ancora una volta gli scettici. Siamo alla decima semifinale in saccoccia della sua più che trentennale carriera, ma quel sorriso che viene dal cuore dimostra che stavolta è stata meno facile di altre: davanti c’erano Cantù e una sequela di de profundis risuonati potenti. Ora è arrivato il momento del Gaudeamus, da recitare piano, prima che scocchi l’ora della
nuova battaglia. Dopo certe partite anche le parole hanno il potere di aggiungere o togliere sfumature ai colori dei fatti. Partiamo da quelle pronunciate da lei nel dopo gara: «Questa è una grossa soddisfazione, ci avevano già preparato la bara… Venivamo da 80 minuti in cui Cantù era sempre stata avanti, l’inerzia era tutta loro, di una squadra più fresca e atletica della mia. Abbiamo iniziato a sentire frasi come «dovete essere contenti della stagione che avete fatto», oppure «Accontentatevi, Cantù è troppo più in forma di voi…» Questa era l’aria che tirava. Io ho impacchettato tutto e l’ho girato alla squadra: ecco servite le motivazioni extra per sovvertire il pronostico».
Se sono in grado di allenare ancora a settant’anni è perché riesco a non farmi schiacciare dalla pressione. Godo tantissimo nel successo e vivo molto male il negativo, ma entrambi i sentimenti durano pochissimo: è una fortuna quando le cose vanno male e una sfortuna, invece, quando c’è da festeggiare una vittoria (e per vittoria intendo anche traguardi storici come lo scudetto della stella con Varese o l’argento alle Olimpiadi). Insomma, ora sono già quello di prima, ma non ho mentito quando ho dichiarato che l’emozione provata mercoledì sera è stata enorme, un qualcosa che quasi non ricordavo.
Vede, io che giocavo ai tempi degli Aldo Ossola, so bene cosa fosse la Reyer e cosa volesse dire venire a giocare a Venezia, soprattutto alla Misericordia. La grande storia di questa società è stata dimenticata a lungo. Contribuire a rinverdirla, far diventare una bolgia un palazzetto che – pur essendo sempre stato pieno – a volte ha fatto fatica a essere trascinato come merita, riempie di orgoglio anche me.
No, decisamente no (ride ndr). Però, credetemi, non avevo alcuna intenzione di essere offensivo nei confronti del pubblico del Pianella: la volontà era quella di ringraziare chi ci ha sostenuto in modo incredibile per tutta la partita. Se qualcuno si è offeso, mi dispiace.
Phil ora è un uomo di 32 anni, maturato sia dal punto di vista personale che professionale. A Varese era un ragazzo con ancora poca esperienza, poi ha fatto i playoff, una finale e ha imparato a volere su di sé molte responsabilità. Per questo, pur avendo uno come Thomas Ress, l’ho nominato capitano della squadra. Ha vissuto una stagione non facile, in particolare dal punto di vista fisico, e non nascondo che abbiamo anche pensato di tagliarlo o di sostituirlo temporaneamente, proprio perché stava male. Poi abbiamo deciso di rimanergli vicino, lui ha creduto in una ripresa e questi sono i risultati: abbiamo avuto tutti ragione.
L’ho detto anche lui: ha sofferto troppo il fatto di allenare Varese. Si è dato responsabilità eccessive, molte di più di quelle che già c’erano. Volere i risultati a tutti i costi, per chi fa la nostra professione, ti consuma, non ti fa dormire la notte, ti fa vivere male. Il suo domani? A me dispiacerebbe davvero se smettesse di allenare. Ha bisogno di trovare una società che gli dia fiducia e lo preservi dalle pressioni eccessive, ma deve anche ritrovare la passione per poter dimostrare a tutti l’ottimo allenatore che in realtà è.
Non mi permetto di entrare nella questione.
Attilio ha fatto molto bene, arrivando in un momento di difficoltà e girando la stagione. Tutto però dipende da società e consorzio: qual è il progetto? Quali gli obbiettivi o il tempo che si vuole lasciare al coach per costruire? Qui a Venezia abbiamo trovato la quadra subito, come successo da voi ai tempi di Vitucci, ma a volte non basta nemmeno un anno.
Parliamo di un pubblico competente e dunque pretenzioso, ma che non si sognerebbe mai di abbandonare la squadra: lo dimostra l’anno passato in seconda serie. Il consiglio, semmai, va a tutti coloro che decidono: per conquistare Varese ci vuole credibilità, bisogna portare avanti un progetto con logica e senza tentennamenti, perché la gente li percepisce subito. Se c’è solidità, anche i passi falsi vengono perdonati.
Non ho ancora deciso, ma l’idea di fare da assistente non è campata per aria. Non di Gianmarco, però, ma di Walter De Raffaele: mi piacerebbe molto. È davvero un grande allenatore.