Le emozioni di un tifoso sono una fede

Ancora un po’ stordito, ripropongo una dichiarazione riportata il 18 settembre dalla Provincia. Dice testualmente il giudice Tiziano Masini, a questo punto d’ufficio prototipo del tifoso doc della Curva Nord, dopo la vittoria del Varese calcio sull’Albinoleffe: «Ho le lacrime agli occhi, perché una vittoria del Varese mi cambia la vita. Ora vado ad esporre la bandiera fuori dal balcone (nota mia: un albergo di Reggio Calabria). Questa per me e per voi deve essere l’unica squadra. Io lotto da qui». È tutto vero? Una vittoria al pallone cambia la vita?

Franco Giannantoni
Varese

Ne cambia illusoriamente qualche momento. Evoca emozioni così nascoste da risultare ignote perfino ai possessori. A chiunque sia stato in uno stadio è successo di vedere la compitezza d’un conoscente volgersi nella scompostezza dell’ultrà.
Lo stadio estremizza i sentimenti di chi lo frequenta, o perlomeno di molti che lo frequentano. Pagine confermative al proposito furono scritte da Brera e Montale, da Arpino e Montanelli e da tanti altri. Pagine che non si proponevano né d’assolvere né di condannare: solo di descrivere. Ammesso poi che si riesca per davvero a descrivere il tracimare del sentimento.
Meglio evocarlo e basta, come fa la poesia, anche se tra le legioni di versificatori calcistici che popolano il nostro “milieu” nazionalpopolare si assiste talvolta ad assalti alla lingua italiana degnissimi (ahinoi) d’una Caporetto. Detto questo, e andando oltre: al sentimento sportivo (al tifo partigiano) non si può sperare di fare argine razionalmente, né in fondo ci si deve preoccupare di giudicarlo. È sufficiente accettarlo per quel che è: un fremito di passione.
Una brace che si accende. Perfino – absit iniuria – un’espressione devozionale verso ciò che viene ammantato di un’aura sacra. Per un adepto, la squadra del cuore rappresenta una fede. Di qui l’allargarsi dell’esultanza oltre i confini della geografia dei comportamenti. Alla fede non si comanda, e non c’è storia che tenga.

Max Lodi

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