Chi è di Varese vive la maglia biancorossa come una seconda pelle, rischiando a volte per troppo amore di farsi prendere in giro da falsi benefattori. Chi è di Varese, e nel Varese ci ha anche giocato, è Federico Ligori, che però è un uomo restio a scendere a compromessi con questo calcio. Proprio per questo, due anni e mezzo fa si è chiamato fuori da un mondo che amava ma che non gli apparteneva più.
Ora, a 34 anni, vive e lavora a Varese, in una Tigelleria di via San Martino. Passano gli anni e l’amore per il Varese non c’è verso che passi, nonostante tutto.
Chi lo conosce sa che Ligori non usa giri di parole, è schietto, anticonformista, dice sempre la sua a costo di sembrare impopolare: «Sto seguendo la situazione del Varese, e ammetto che il tutto mi fa sorridere – commenta con amarezza – Mi dispiace per la gente che al Varese ci tiene per davvero e che non si merita tutto questo. Non è una cosa bella da vedere, ma ormai sembra che nel calcio sia questa l’abitudine e non più l’eccezione. Una volta era il contrario. Adesso anche io potrei comprare una squadra di calcio, chi me lo impedisce? Ecco, non deve essere così, perché chi decide di diventare il capo di una società deve mettersi bene in testa che il calcio non è fatto per guadagnare, ma per investire. E soprattutto, i calciatori ed i dipendenti vanno pagati, come ogni lavoro che si rispetti».
Federico ha giocato due stagioni a Varese, vivendo da vicino il fallimento del 2004: «Per me giocare a Varese è stata una bellissima esperienza, poi da varesino era il massimo a cui potessi aspirare. Io per questa maglia morivo in campo, ma sono sicuro che ogni giocatore che è passato di qua l’abbia fatto. Poi nell’anno del fallimento dei Turri iniziai la preparazione con Roselli, che prima dell’inizio della stagione lasciò il posto a Sannino, al suo primo passaggio a Varese. Andai via a gennaio, al Prato, e la mia carriera svoltò, girando tante piazze diverse».
Ha cambiato tante squadre Ligori, ma mai il suo modo di intendere il calcio: «Io amo questo gioco, però appena ho capito che il mondo del calcio stava prendendo una brutta piega, mi sono fatto da parte. E non è perché non trovassi squadra, ma solo perché non ci sto ai compromessi, quel calcio non rientrava più nei miei modi di pensare. Quando ti chiamano per dirti “vieni al campo che ti paghiamo gli arretrati”, tu ti presenti ed il campo è chiuso, cosa puoi pensare? Che sia tutto una presa in giro. Per me andare al campo per allenarmi era una gioia, però non ho mai venduto l’anima per il calcio, l’ho sempre fatto solo perché mi piaceva. Adesso questo modo di comportarsi sembra diventata una consuetudine di cui non ci si sorprende più, e così non deve essere. Anche se ho smesso, se adesso mi chiamassero al Varese andrei di corsa, perché sinceramente chi non vorrebbe giocare a Varese? Se si fa pulizia, è una piazza stupenda».
E anche il suo Varese è caduto in questo vortice: «Onestamente, ho ancora in mente l’anno scorso le lodi ai dirigenti che iscrissero la squadra all’ultimo. Ho subito pensato che fossero alla canna del gas, è un po’ come pagare il mutuo, se devi pagarlo entro il 20, e ti presenti il 25, non puoi far credere che vada tutto bene. Infatti poi si è visto. Se sei a posto, non arrivi con l’acqua alla gola. In quel momento ho capito che sarebbe durata poco. E poi la stagione è andata come è andata, non puoi sperare che dipendenti e giocatori vengano felici al campo quando non vedono lo stipendio da mesi. Io lavoro e se non venissi pagato, non mi presenterei con il sorriso».
Quindi lui, come tanti altri, farebbe tabula rasa: «È meglio ripartire dal basso, con dignità, riconquistando l’affetto dei tifosi, gli stessi che sono scesi in piazza settimana scorsa. Molti li conosco, sono legato alla vecchia guardia del Varese e mi spiace per una brava persona come Ramella che meritava questa occasione al Varese ed è arrivato decisamente nel momento sbagliato».