Ho letto un po’ ovunque la notizia della scomparsa di Enrico Arcelli. Sapevo del suo essere all’avanguardia, sapevo del suo impegno con il Varese del calcio e del basket e con Moser in occasione del record dell’ora, sapevo molto meno di altre cose, tra cui l’aiuto costante garantito anche gratis agli amatori. Oggi nello sport girano tanti alchimisti neri: ci vorrebbe più gente come il Prof.
Vittorio Brusa
Busto Arsizio
(S. Aff.) Arcelli inventò la preparazione atletica su basi scientifiche, cosa che fino ai primi anni ’70 nessuno faceva: si andava a sensazioni, ad abitudini, a carichi di lavoro calcolati a spanne. Credo che non avesse mai accarezzato, neanche da lontano, la tentazione di far prendere ai suoi protetti qualche scorciatoia chimica.
Oggi ogni campione ha il suo guru personale, spesso entrambi finiscono nella rete del doping in uno squallido effetto domino. Non è questo che intendeva Arcelli quando studiava metodi rivoluzionari di approccio alle gare e allo sport.
Ieri, su queste pagine, il dottor Carletti ha detto che «vedeva nello sport un modo per far stare bene tutti, anche la gente comune». Era medico, prescriveva più corse che farmaci.Non a caso tra i suoi allievi c’è stato un altro grande del settore, purtroppo scomparso troppo presto: Aldo Sassi, nemico giurato di tutto ciò che avesse anche solo un retrogusto vagamente ambiguo.
La lezione di Arcelli, in fondo, è tanto semplice quanto grandiosa: in ognuno di noi c’è un atleta, non necessariamente campione, e se lo tiriamo fuori viviamo meglio.