Le brave ragazze vanno in paradiso, quelle cattive vanno dovunque: così vuole il detto. Ma si dà il caso che, davanti alla violenza omicida, tutte le ragazze più o meno brave vadano esattamente nello stesso posto: in paradiso forse, sottoterra sicuramente. E’ il finale tragico che ha accomunato Lidia Macchi e Ashley Olsen: vivere in epoche, luoghi e modi molto diversi, morire entrambe per mano di un uomo. Ma per queste due donne assassinate, quella società che a fatica si può definire civile ha pronti due verdetti opposti: Lidia era una brava ragazza ed è stata violentata, quindi merita di essere ricordata con delicatezza e umana compassione; Ashley era una poco di buono che con il suo assassino ha fatto sesso consenziente, quindi le spetta un’indegna gogna mediatica post mortem. Verrà il giorno in cui, almeno davanti alla morte, smetteremo di dividere le donne in buone o cattive. Ma quel giorno non è oggi, come Ashley e Lidia tragicamente insegnano. Ashley e Lidia che, questo è innegabile, non avrebbero potuto essere più diverse: Lidia era una ragazzina di appena vent’anni quando, nel 1987, l’uomo che gli inquirenti avrebbero individuato in Stefano Binda l’ha violentata e uccisa con 29 coltellate. Gli anni Ottanta, la provincia lombarda, l’ambiente di Comunione e Liberazione: ogni aspetto della vita di Lidia restituisce il ritratto di una ragazza candida, innocente e virtuosa. E tutti l’hanno sempre ricordata con un affetto e una commozione che anche chi non l’ha mai conosciuta ha finito per fare propri. Ashley aveva 35 anni quando, l’8 gennaio, è stata uccisa dal reo confesso Cheik Diaw. Americana trapiantata in una Firenze che doveva apparirle come un esotico mix di Rinascimento e dannazione, Ashley era una donna adulta, moderna e spregiudicata: una che tirava l’alba nei locali d’Oltrarno, che faceva uso di droghe, che aveva
costumi sessuali liberi. Quindi Ashley è sì vittima, ma anche colpevole. Colpevole per il suo stile di vita, colpevole di aver tradito il suo ragazzo, di aver assunto droghe, di essere andata a letto con uno sconosciuto per giunta senegalese, (la qual cosa, nel metro di giudizio degli indici puntati, pare essere particolarmente immorale). E così Ashley si merita una damnatio memoriae che, nella gloriosa epoca dei social, si traduce in un profluvio di insulti rivoltanti. Il giudizio, su questa ragazza che la famiglia affranta ha appena seppellito, è drammaticamente unanime: “se l’è andata a cercare”, che poi è solo un modo meno crudo di dire “se l’è meritata”.Già, la famiglia. Osiamo immaginare che nella voragine di dolore per la perdita di Lidia i genitori possano forse trovare una minuscola, infinitesimale consolazione nelle parole di sincero affetto e profondo rispetto con cui questa ragazza splendida è e sarà sempre ricordata. Viceversa siamo sicuri che per i coniugi Olsen sentirsi ripetere proprio nei giorni del lutto che la loro figlia era sostanzialmente una donnaccia sia una quota di dolore supplementare crudele e ingiusta. Buon gusto e umanità vorrebbero che in certi casi si riuscisse, se non a sospendere il giudizio, almeno a tacere. Ma l’umanità è merce rara in un Paese in cui le donne sono sempre sotto processo, anche quando vengono stuprate e uccise. Secondo gli inquirenti che hanno seguito il caso, il movente dell’omicidio di Lidia Macchi molto avrebbe a che fare con questo perverso meccanismo di giudizio: l’assassino si sarebbe accanito su di lei perché la riteneva in qualche modo colpevole del peccato da lui commesso violandola. Delirio religioso puro, si è detto. Certo, ma anche specchio parossistico di una mentalità comune: quella per cui le donne sono sempre le prime imputate, anche dei crimini commessi contro di loro.