Che cosa si può pensare di noi all’estero, quando prima della finale della Coppa Italia di calcio una parte dello stadio Olimpico di Roma si mette a fischiare l’inno d’Italia? Si può capire qualunque contestazione nei confronti delle istituzioni e di quello che non va nel Paese, ma che cosa c’entra l’inno?
Non dovrebbe essere un canto che ci rappresenta tutti, al di là di qualunque differenza? Purtroppo nella circostanza chi sta fuori dalle istituzioni non ha dimostrato d’essere migliore di chi vi sta dentro.
Paolo di Benedetto
È stata una figuraccia planetaria. E anche ben altro. Per esempio un’offesa ai nostri connazionali che vivono all’estero e che han visto in tv Juventus-Napoli: per loro l’inno di Mameli conserva un valore sacro, li riporta al profumo della terra d’origine, al calore d’una patria verso la quale provano affetto, all’eco di voci care che non sentono da un pezzo. Gli procura un brivido e un’emozione.
Più precisamente: li commuove. Vederlo (ascoltarlo) infangato a quel modo, è stato il peggio che gli potesse capitare. Ne han subìto umilianti conseguenze ieri, al ritorno sui posti di lavoro, dove a causa di questa cialtronata sono stati irrisi e dileggiati dai compagni d’altra nazionalità.
È così che si consolida lo sprezzo verso un popolo, la sua unità, il suo orgoglio, i suoi sacrifici, le sue sofferenze. Scordare che cosa l’inno ha voluto dire per milioni d’italiani immolatisi per milioni d’altri italiani, è una sciagurata dimenticanza. Profittare della sua esecuzione durante un evento sportivo per dare sfogo a risentimenti, proteste o sberleffi dimostra una miseria culturale che appare purtroppo senza rimedio. Restiamo un Paese che, in una parte non affatto minimale, si conserva e si perpetua povero perché rifiuta la ricchezza del senso d’appartenenza. È vero che chi dovrebbe incitarlo ad acquisirla, spesso viene meno al compito, ma è falso attribuire a tale mancanza l’intera responsabilità d’un atteggiamento così vergognosamente irresponsabile.
Max Lodi
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