Meglio vivi col Poz che morti con Clark

La lettera di fine anno alla Pallacanestro Varese, scritta da Fabio Gandini

A Capo e poi punto. In terra siciliana – dove si è consumata la partita più assurda dell’epopea di Pozzecco e prodi tutti, dove gli avversari sono stati capaci prima di ridicolizzare limiti tecnici ormai palesi, per poi subire l’ira tardiva di dieci “Pelide” biancorossi sciagurati e troppo lunatici – si conclude il 2014 della palla a spicchi varesina. Un viaggio iniziato a Siena, nell’imminenza di una Befana che portò nella calza la prima di troppe sconfitte ed al cospetto di morti ancora camminanti,

alle prese con gli ultimi bagliori di paradiso prima di sprofondare all’inferno; un percorso proseguito dalla rassegnazione alla mediocrità, stando alla finestra a rimirare il cielo grigio con la radicata speranza di tornare a vedere, un giorno, il sospirato sole.
Siamo passati dal sollievo per la fine di una stagione senza emozioni all’esaltazione per quella successiva, fomentati nel desiderio da un nome che da solo è bastato ad accenderci come fuochi d’artificio; il nostro sabato del villaggio è stata un’estate all’insegna della curiosità, dei ritorni graditi e delle sorprese da scartare, con la testa finalmente alta dopo mesi a fissare il pavimento con apatia. Solo allora è ritornata la domenica, parziale tuffo nella realtà: abbiamo scoperto che le belle storie non sempre fanno punti (contro Cantù sì), che quando manca il talento imprevedibile le macchine senza benzina si fermano e che, se fosse facile azzeccare i giocatori, comporre una squadra di pallacanestro sarebbe il lavoro più bello del mondo.
Non ci mancano le “ali” per volare: piuttosto vaghiamo senza “regia” e cercando un “centro” di gravità permanente. Eppure, per ora, continuiamo a sorridere. Sarà che andiamo a cento all’ora, sarà che non ci annoiamo mai, sarà che riusciamo a volte a toccare con mano una gratificazione che non si può insegnare: quella dell’impegno. Sarà che c’è il Poz cui, purtroppo o per fortuna, perdoniamo tutto.

A Capo e poi punto.

Dell’anno solare che si conclude buttiamo via volentieri la sensazione di essere guidati da un professionista freddo e messo nel posto sbagliato, cancelliamo l’indegna indole dei giocatori tutti (da chi ha finto infortuni, al peggior playmaker nella storia del basket, a chi si è dimostrato viziato e non ha fatto nulla per cambiare il corso degli eventi): grazie e a non rivederci. Poi vorremmo scordarci delle ingenuità ripetute (e non ancora imparate) che ci stanno costando un posto al sole in un campionato tutt’altro che impossibile e desidereremmo toglierci la brutta sensazione di essere ancora una volta incompleti e perennemente perfettibili.
Il resto lo teniamo stretto: ci teniamo un allenatore ed un personaggio che vale la pena di assaporare “any given sunday”, ci teniamo la speranza di crescere con lui e – comunque vada il 2015 – di non dover ricominciare ancora da zero. Ci teniamo il cuore di Diawara e attendiamo con ansia quello di Kangur, ci emozioniamo nel vedere Rautins abbracciare un compagno e Callahan fare un fallo “terminale” su un avversario, sorridendo poi complice al proprio coach. Ci sono tanti modi per essere “Indimenticabili”, soprattutto quando sai che gli allori resteranno un sogno.