Mennea simbolo anti bamboccioni di un’altra Italia

Nell’attesa che Renzi vari la riforma che dovrebbe dimezzarci il canone, la Rai propone in un film la storia di Pietro Mennea, il velocista che ci fece sognare, vinse un’Olimpiade, battè il record dei duecento metri e lo conservò per anni e anni. Una vita esemplare, ben lontana da quella di molti atleti di oggi, soprattutto calciatori, di cui spesso leggiamo. Mennea è rimasto il simbolo, se mi permettete, dell’Italia del sacrificio. Forse di un Paese che non c’è più, specialmente a guardare la voglia di quei giovani che un ministro, non troppo tempo fa, definì bamboccioni. Non aveva tutti i torti. Se sono cresciuti, guardino lo sceneggiato televisivo: qualcosa impareranno.

Alessandro Guzzi

Non tutti i giovani sono bamboccioni. Molti se la passano duramente, studiano, faticano, infine lavorano. A differenza d’altri coetanei, non stanno a casa a farsi mantenere fino a trent’anni suonati, speculando su genitori e nonni. Quanto agli sportivi, l’etica del sacrificio – ch’era la bussola della vita di Mennea – non appartiene a tutti, ma a un bel gruppo di quelli che riescono a imporsi, sì. In molte discipline, e perfino nel calcio, ai nostri occhi solo un divertimento che regala

soldi e privilegi. Non è così: impone una durezza quotidiana di lavoro sconosciuta ai più. Mennea è stato il simbolo degl’italiani che, pur partendo da una condizione di sfavore, ce la fanno. Superò barriere fisiche, psicologiche, culturali. Scelto un obiettivo, vi si dedicò perdutamente inseguendo la vittoria. Un fuoriclasse dello spirito, prima di tutto. Quando tagliava il traguardo, era solito lanciare un urlo liberatorio. Servì a molti, che la sorte non gratificò benignamente come lui, a uscire dal silenzio dell’inferiorità.

Max Lodi