“Tornate a casa nani, levatevi davanti: per la mia rabbia enorme mi servono giganti”. Francesco Guccini cantava così in una delle sue canzoni più belle, che per caso ci è capitata dentro nelle cuffiette in una serata passata a pensare alla Pallacanestro Varese. Cosa significa? Nulla, anzi una cosa: che Milano è l’avversario giusto al momento giusto.Un malato grave non si cura con i brodini, ma con botte d’antibiotici che stenderebbero un cavallo. Varese è un malato grave? Forse siamo un filino esagerati, e da queste parti non siamo abituati a creare tempeste nei bicchieri d’acqua (no, noi non lo facciamo). Però di sicuro i problemi non mancano, e allora eccoci qui. Serviva proprio Milano: da affrontare e battere per urlare a tutti “noi siamo vivi, noi siamo quelli che hanno tritato Cantù, noi siamo Varese”. Perché alla banda del Poz adesso è sufficiente fare il proprio dovere, non basta: serve una piccola impresa. E poi si ricomincia.Si ricomincia a vincere, innanzitutto: che non sarebbe male, perché se quattro sconfitte in fila sono tante cinque diventerebbero troppe (e il calendario non è che lasci troppo tranquilli). Si ricomincia a pensare
che questa stagione abbia ancora tanto da dire, e non che si sia già sparata tutto in un’unica serata da godimento cosmico al debutto con Cantù. Si ricomincia a guardare a questo meraviglioso giochino con gli occhi giusti: che qua attorno c’è gente decisamente troppo nervosa.Qual è la verità? Che arriviamo da dieci giorni passati letteralmente nel fango, a parlare di alluvioni e frane che uccidono, e tornare adesso a scrivere di basket ci regala una leggerezza tale che ci vien facile trincerarci dietro la più ovvia delle ovvietà. Tutto questo è solo un meraviglioso gioco: che fa incazzare e litigare, ma che dev’essere sgonfiato quando ci si accorge che sta andando oltre. A incancrenire rapporti personali e a prolungare silenzi che non hanno senso.Serviva Milano, adesso: non avremmo scelto un avversario diverso, adesso. Poz, non scrollare la testa adesso che lo sappiamo che sei d’accordo con noi. Ma sì, che dentro sei ancora un giocatore. Te lo ricordi, vero, come si faceva a rialzare la testa dopo un periodo schifoso? Esatto: si riempiva il palazzetto e si batteva Bologna. Al palazzetto ci pensa la gente: tu fai il resto.