Non è la fine ma l’inizio del Varese

Il commento del direttore Andrea Confalonieri dopo la sconfitta dei biancorossi in casa contro il Catania

Arriverà la fine ma non sarà la fine. Vorrei che fosse oggi, in un attimo già domani. Per ricominciare, per stravolgere tutti i miei piani. Perché sarà migliore, e io sarò migliore. Non mi sembra vero, e non lo è mai sembrato. Facile e dolce perché amaro come il passato. Ma qualcuno lassù mi ha guardato e mi ha detto: “Io ti salvo stavolta, come l’ultima volta”.La canzone si chiama

“la fine” ma poteva benissimo intitolarsi “venduti” come lo striscione che resta solitario a campeggiare nel cuore della curva Nord che si svuota, e lo fa sullo 0-0 neppure veramente perché la gente che ci è sempre stata – da Parabiago a Modena – muore sul campo in silenzio, massima crudeltà, e si assiepa ai lati di quel “venduti” per assistere all’agonia del Varese finché cade l’ultima goccia di sangue.

“Peccato che non sia il Giro d’Italia perché non ci possiamo nemmeno ritirare”: Franco Vanoni, che da trent’anni cura l’erba di Masnago, scrive amaramente il titolo di coda di quest’esecuzione senza fine, con la testa che non cade mai anche se è già caduta da mesi. Da quando Imborgia ha disfatto l’attacco a gennaio, da quando Laurenza è scappato (senza testa, il corpo agonizza), da quando la squadra è stata iscritta senza un euro. Da quando non sono stati ascoltati i Sogliano, i Claudio Milanese, i Giorgio Scapini, il cuore pulito del tifo invece della propria incompetenza, della propria arroganza, dei propri affari. Noi non stiamo nemmeno più soffrendo perché lo abbiamo fatto quando tutto ciò accadeva, impunemente. Quando la società veniva sradicata dal territorio e consegnata agli stranieri: non ai napoletani buoni come il socio di minoranza Vitiello, ma a quegli altri che volevano solo approfittarsene. E adesso abbiamo il cuore in pace, guardiamo al futuro. Alla rinascita. Senza Cannella. Senza Imborgia. Senza Laurenza. Senza Cassarà. Ma anche senza nessuno di quelli che li hanno ascoltati, spalleggiati, aiutati nell’opera di distruzione. O addirittura introdotti in società. Non si apre la porta agli sconosciuti. O a chi nell’ambiente era conosciuto perfino troppo bene.

“Forse il loro Varese è morto, ma il nostro vive e non morirà mai. È stato come sentirsi ospiti a casa nostra, ma il Varese tornerà a essere la nostra casa”: questo dice il papà di questa maglia, il papà dell’Eccellenza, il papà del vero Varese dopo che aveva già detto “Meglio la penalità che perdere la dignità”.
Finisce dopo novanta minuti di insulti, giustiziati tutti senza pietà, tutti tranne Osuji. “Wil-ly-Wil-ly” urlano dalla tribuna al più piccolo, minuscolo, insignificante giocatore del Varese. Ma è una briciola che non si crede una stella: è per questo che è l’unico meritevole di restare. Lui e Neto, ma anche Spartaco Landini e Franco Vanoni. Il ds è il primo ad arrivare in sede e l’ultimo a lasciare la panchina: lotta contro la morte ma vive per il Varese. Vanoni, con lo stadio svuotato e immensamente silenzioso, è ancora lì che gira sul campo a controllare il prato, che per lui è più di un figlio. È rimasto da solo: l’ultima bandiera.