Il secondo titolo croato di fila val bene un… cotechino. Nel frigo di casa Pozzecco in quel di Zagabria, il giorno dopo la gara 5 vinta dal Cedevita, parrebbero non esserci altre convincenti alternative alimentari per festeggiare, con buona pace del caldo di giugno e di ogni inutile convenzione mangereccia. «Tranquillo, non ho fretta: l’ho appena messo sul fuoco…». Il tempo di cottura sia benedetto, perché trascorre in emozioni, rivelazioni, progetti e sentimenti cestistici che si fanno esistenziali, Nonché in una (ri)scoperta di punti fermi che tali – perpetuamente immobili – rimarranno sempre.
Sì, sono molto contento: quando riesci a conquistare qualcosa di sofferto la gioia raddoppia, addirittura si triplica. Inutile nasconderci: per noi vincere il campionato croato non doveva essere in discussione. Le cose, però, non si erano messe bene: abbiamo avuto due infortuni importanti prima delle finali e siamo andati sotto 2-1 nella serie dopo aver vinto gara 1, giocando male, e aver perso le due successive. In città si diceva che a quel punto il Cibona avesse già preparato le magliette celebrative del titolo, recanti la scritta “C’è un nuovo-vecchio sceriffo in città”: sai com’è, loro una volta dominavano, poi siamo arrivati noi e le parti si sono un po’ invertite… Invece siamo stati bravissimi a mescolare le carte in gara 4 e a farci trovare preparati in gara 5, sfruttando il fatto di avere rotazioni più lunghe. Ci tengo a dire una cosa, tuttavia: i nostri avversari sono stati bravissimi, hanno giocato una grande finale-derby.
Beh, è normale che lui sentisse più di chiunque altro questa finale: per me sarebbe lo stesso se allenassi in un Varese-Cantù decisivo per lo scudetto… Veljo è molto soddisfatto, perché abbiamo fatto quello che dovevamo fare in questa stagione: siamo arrivati in finale di ABA League, abbiamo vinto il titolo croato, abbiamo passato il primo turno di Eurocup. Vincere anche la Lega Adriatica, non solo arrivare all’ultimo atto, sarebbe stato bello, ma la Stella Rossa Belgrado è stata di un altro pianeta.
Innanzitutto sono sempre più convinto che sia stata una scelta azzeccata per me venire qui. Mi ha aiutato a implementare la conoscenza analitica della pallacanestro, la cosa che da ex giocatore mi mancava di più, perché le responsabilità del vice-allenatore – per esempio la preparazione dei video pre-partita – sono quanto di più lontano possa esserci per chi va in campo. E poi è stata una scelta di cuore, visto il rapporto che mi lega a Mrsic. Capirò davvero quanto mi sarà servita questa parentesi solo quando tornerò in panchina da capo-allenatore, quando mi rimetterò alla prova insomma…
Ora mi piacerebbe trascorrere un anno da viaggiatore del basket, senza un ruolo fisso in un club. Vorrei andare negli Usa, da Ettore Messina, per vedere come lavora San Antonio che è forse la miglior organizzazione tecnica della Nba e del mondo intero. E poi in Spagna, e ancora altrove: in tanti mi hanno contattato… Sarebbe il modo perfetto per chiudere il mio “tirocinio” della panchina e penso proprio che lo farò, a meno che non si concretizzino un paio di altre “cose” che almeno come idee mi stuzzicano. Nessun salto nel vuoto, però: non voglio farmi trovare impreparato quando mi capiterà di guidare nuovamente una squadra in prima persona. E’ per questo che vorrei continuare a studiare…
… Magari su un’altra panchina europea, più difficile in Italia. In un posto, comunque, che abbia determinate caratteristiche, in una situazione in cui possa verificare i miei cambiamenti e capire se sono in grado di reggere la pressione del ruolo che ricopro, dopo quando accaduto con Varese. Che, peraltro, non fa e non farà mai testo…
Lo sapete già, lo ripeto sempre: io, a Varese, ho sofferto le pene dell’inferno ed era inevitabile che andasse così. La mia fidanzata dice che ero posseduto: è vero. Varese era la scelta del cuore, quella che rifarei domani mattina perché impossibile da rifiutare. Mi ricordo ancora quando mi chiamò Vescovi e mi fece la proposta… Telefonai subito a mio padre e lui mi chiese: «Accetti?». Gli risposi: «Ma sei scemo? Ovvio che sì…».
Sì, perché è un ragazzo straordinario cui voglio un bene dell’anima. Sono stato orgoglioso del fatto che sia stato con Ducarello in Sicilia, perché significa che quello che abbiamo costruito insieme nella nostra mezza stagione varesina è andato al di là dello sport. Due anni fa ero favorevole al fatto che “mettesse il culo” fuori di casa e gli dicevo: «vedrai che ti servirà e vedrai che prima o poi tornerai». E’ successo ora con Attilio: sono davvero molto felice.
Penso che questa fiducia non sia stata riposta per caso. Chi c’è in società è una garanzia: lo è Toto Bulgheroni, lo è Alberto Castelli, che stimo enormemente, Coldebella non lo conosco bene ma so che è un buon professionista. E poi ci sono i ragazzi che lavorano negli uffici, persone che valgono e simbolo di continuità: cito per tutti la responsabile del marketing, Luna Tovaglieri, una grande. In ogni caso Varese non è un posto normale: l’attaccamento dei tifosi è viscerale. E’ per questo che un giorno, quando sarò vecchio, mi piacerebbe tornare.
In un ruolo di rappresentanza, tipo presidente onorario. Mi sento parte di questa creatura (non è una società: è una creatura…) e spero sia un sogno realizzabile.
Presto. E se nella prossima stagione davvero non allenerò, avrò più tempo per venire a Masnago e rivedermi finalmente una partita.
Non vi preoccupate, verrò. Peggio di Francesco Caielli non posso fare, anche da sbronzo.
Vado a Valencia a conoscere la famiglia di Tanya. E’ arrivato il momento: è la donna della mia vita.