Paolo Rossi canta Gianmaria Testa al teatro Openjobmetis di Varese. “ROSSINTESTA”, in scena sabato 8 aprile alle 21, è il concerto/spettacolo dedicato a lui e con le canzoni che il cantautore, scomparso un anno fa, aveva scritto per alcuni lavori teatrali di Rossi, fra cui il nuovo Molière.
«È una serata popolare, niente di nostalgico. Non è un’orazione funebre e se lo è, è da comici e commedianti: leggera e divertente», spiega l’attore.
Stralunato e incisivo, Rossi – che spazia da trent’anni dai club ai grandi palcoscenici, dal teatro tradizionale al cabaret, dalla televisione al tendone da circo – non ha mai nascosto passione e talento per la musica, che l’ha persino portato due volte al Festival di Sanremo. «Reputo da sempre importante la musica nello spettacolo». E raramente è mancata nelle
sue performance. «È nato tutto con i monologhi. All’inizio era talking blues: un modo per raccontare storie e dare forza alla storia stessa. Poi negli ultimi anni ci sono sempre state canzoni cantate dall’attore, che però ha un modo diverso di approcciarsi, è più interpretativo. Non è un novità esiste dal teatro greco a Brecht, senza contare musical e operette».
Con la sua voce, che adesso «becca note cui prima non arrivava», Paolo mescola la satira dell’attore alla poesia di un cantautore abituato a confrontarsi con il teatro. Sul palco l’accompagnano i Virtuosi del Carso, che proporranno i loro straordinari arrangiamenti di alcune tra le più belle canzoni di Testa, insieme a qualche inedito e ad una dedica al grande Enzo Jannacci.
Inaspettato, se si pensa che dovevamo fare una data evento e invece, è diventata una tournèe. Questo la dice lunga sul suo valore.
Sì, come tutti gli spettacoli, in particolar modo i miei. Con Molière abbiamo fatto 158 repliche riempiendo i teatri di tutta Italia, ma se chi lo ha visto a inizio stagione e lo rivedesse, lo troverebbe diverso. In “RossInTesta” a volte cambiamo la scaletta, gli arrangiamenti o l’interpretazione. Capita anche perché d’abitudine provo fino all’ultima replica. È una regola del teatro popolare italiano, non l’ho inventata io.
I ricordi personali sono molti intimi e poi ce ne sono alcuni che vengono portati in scena. Per me è come se fosse a casa e non fosse potuto venire in teatro. Credo che sia più vivo lui adesso, di altra gente che è morta e non glielo hanno ancora comunicato.
A Trieste si dice: “Glielo dico subito o lo lascio morire scemo?”. Lasciamoli così.
Sì, per tre motivi: c’è un vasto pubblico italiano all’estero, a Londra o Bruxelles avremmo potuto fermarci 15 giorni; c’è una grande passione per la nostra cultura e noi ci facciamo capire ovunque. È incredibile. Sta nella tradizione della commedia dell’arte. Ci viene naturale mischiare le lingue. Ne parlo 14, ma tutte insieme.
Giuro che la battuta è mia, ma gliela lascio volentieri, perché han bisogno di soldi (ride). L’incapacità ad apprendere le lingue ci porta, a comunicare meglio. È più importante imparare a fare le emoticon del telefono e rifarle nella vita. È quello si cui sto lavorando. Non si sa mai che mi richiamino in Cina o in Polonia.
Quando fai mestiere che ti piace, rimani sempre curioso e consideri il tempo in altro modo. Un giorno mi sento 80 anni e un altro 18. Fisicamente però sono più in forma che a 20. Mi sono messo in riga, mangio bene, faccio ginnastica. E poi succedono cose che fanno ridere. A Ferrara, mentre passeggiavo per il corso, sono usciti in quattro da un bar salutandomi. Ho pensato: “chi sono questi vecchi?”. Erano miei compagni di scuola. Il tempo è elastico. Ci sono trentenni che sono seduti anche se stanno in piedi.
L’esperienza che accumuli. Credo che sia grande privilegio perché di fatto non lavori, giochi. Lo dico provocatoriamente, perché è fatto di fatica, tensione e stress. Gli attori potrebbero tenere corsi di precariato. Siamo precari dal 1500. Ho iniziato a 17 anni in fabbrica, potrei andare in pensione, ma un attore che lo fa è traditore. Aggiungiamoci la vanità e non si fermerà mai. Ultimamente sto studiando teatro orientale e lì ci sono novantenni che vanno in scena nella parte di ragazzini e quando li guardi ci credi.
Penso che aumenterò il peso specifico della politica, ma non l’intendo come destra e sinistra. Credo che fare politica significhi fare azioni concrete per il proprio mestiere. Il mio è un lavoro divertente, ma anche culturale. Lo chiamo teatro di ri-animazione. Per me e per il pubblico voglio avere comportamenti il meno contraddittori possibile. Le idee chiaramente sono nate da una parte, ma non fanno finta di non vedere quel che accade nel mondo. Mi hanno appena chiesto cosa pensassi della scissione del PD. Ho risposto che non mi interessa perché faccio politica.